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From Zero: i Linkin Park e il magico potere curativo della musica

«Ci saranno ancora là fuori i fan, per noi?»: Questa domanda racchiude la sincera incertezza di una band che si è spenta e riaccesa in questi ultimi sette (lunghissimi) anni. From Zero non può che essere considerato il rinascimento musicale dei Linkin Park, un’operazione post-trauma responsabile e autentica, slegata dal mercato e completamente a favore della musica


Se ascoltate attentamente Post Traumatic di Mike Shinoda, vi renderete conto che è un album pieno di domande. Un’operazione di ricongiunzione con i fan per capire che ne sarebbe stato dei Linkin Park senza quel pezzo di anima che parlava – e screamava – per loro. Il tour dell’album solista era quasi una responsabilità, un atto di fede curativo non solo per i fan, ma anche e soprattutto per Mike. Il fatto è che né Shinoda né il resto della band sapevano dove condurre quella barca, al punto che, dopo una lunga traversata, decisero di lasciarla riposare al porto, in attesa che la marea si fosse finalmente calmata.

In questi sette lunghissimi anni di arenamento e ripartenza, Mike e soci hanno immaginato ipotetici scenari. Ma se là fuori non ci fosse più un mare da navigare? Se si fosse tutto prosciugato con il passare degli anni e le memorie dei fan si fossero concentrate su altri lidi? Per un musicista, come per qualsiasi figura creativa, è importante capire quale sia il suo pubblico. Immaginare di non averlo, o averne quasi la certezza, è la morte del progetto.
Emily Armstrong – già frontman nei fortissimi Dead Sara è la goccia che mette in moto quel motore, distinguendosi per il suo tono unico, abrasivo. La fede musicale e personale della band scaccia quella paranoia del dimenticatoio, mettendo in moto il processo creativo di From Zero.

«From Zero? Like, from nothing?». Non proprio. La voce infantile che spacca l’intro di From Zero, title track e prima traccia del disco, viene poi sovrastata dal muro di chitarre di The Emptiness Machine, manifesto assoluto di resilienza. Un pezzo che valorizza le doti di tutti, dalla versatilità vocale di Armstrong alla capacità compositiva e memorabile di tutta la band. Tipicamente linkinparkiana – passatemi il termine – è invece Cut The Bridge, una sorta di riadattamento anni Venti di Bleed It Out, simile nel riff di chitarra e nei cori del ritornello. Ma in questa rielaborazione c’è freschezza e pulizia. Siamo perciò lontani dall’autocitazionismo, perché stiamo parlando di polistrumentisti, di tecnici del suono che maneggiano la materia come acrobati, sempre impostati sulla modalità del dare e mai del ricevere.

Pensiamo lo stesso anche per Heavy is The Crown, che al primo ascolto non convince ma al secondo round fa salire un brivido sulla schiena. L’effettistica alla tastiera riporta alla mente tutto Living Things, compreso l’intermezzo in scream, distruggendo completamente le nostre (inutili) incertezze sulla Armstrong. Inoltre, lo scalpore per la sostituzione di Chester Bennington ha fatto passare sotto banco la novità dietro le pelli della band: Colin Brittain sostituisce Rob Bourdon, batterista storico della band che ha preso le distanze dal progetto. Colin è un produttore e polistrumentista che si adatta benissimo al range e alla versatilità dei suoi colleghi, già navigato grazie alla collaborazione con Shinoda per l’album-celebrazione Papercuts. Un nome che cita la Papercut di Hybrid Theory e che torna in questo ultimo album con Casualty e IGYEIH, due bombe rock chiamate a spaccare quella che sarebbe diventata una monotona linea techno/elettronica: la fanno da padrone il growl impeccabile e il basso inaspettatamente distorto e prepotente.

Azzardo ammettendo che From Zero sfiorerebbe la perfezione, se non fosse per alcune personali considerazioni riguardo Over Each Other e Good Things Go, due ballad elettro-pop che stonano nel concept generale dell’album. Tuttavia, stiamo parlando di una band che gioca senza barare, rischiando anche di incontrare il gusto di un pubblico più mainstream ma sempre qualitativamente interessante. La band appare, così, lucidamente conscia del proprio valore. Emily Armstrong non si adatta al range di Chester Bennington ma a quello dei Linkin Park. Emily Armstrong è i Linkin Park: è facile per una fan cadere nell’imitazione, nel banalismo. Sostituire un frontman significa anche metterlo a rischio, perfino superarlo. E così, Emily supera coraggiosamente il livello delle nostre aspettative, aggiungendo nuova linfa a un repertorio ben conosciuto e rendendo il suo contributo autentico e geniale. La sua voce smentisce una volta per tutte quest’idea di irripetibilità o unicità dei frontman, spostando invece l’attenzione sull’importanza di continuare a credere in sé stessi, sul darsi tempo e possibilità. Là fuori esiste sempre una seconda possibilità, sta a noi scegliere di perseguirla e saperla accoglierla al meglio.

Marika Tassone

25 anni (non proprio) di libri, film e musica metal. Scrivo tante cose e lavoro per il cinema.

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