I canadesi Men I Trust tornano con due album di inediti rilasciati in due mesi: se Equus Asinus sembrava rappresentare una svolta più flemmatica e compassata, Equus Caballus rappresenta lo zenit creativo del loro inusuale percorso artistico
Ville de Québec è la città più antica del Nord America ed è l’unica in cui un europeo non si sentirebbe disorientato dall’urbanistica tipica del nuovo mondo, quella che separa aree residenziali, commerciali e industriali in modo netto, rendendo necessari gli spostamenti in auto. Le architetture in stile europeo della città antica risalgono ai primissimi insediamenti del XVII secolo e la lingua ufficiale è un dialetto del francese evolutosi nel corso di centinaia di anni in modo spontaneo e indipendente. I suoi confini sono verdi e selvaggi.
È in questo contesto dicotomico, esotico ma familiare e incredibilmente affascinante che i primi membri, Jessy Caron e Dragos Chirac – studenti del dipartimento di musica dell’Université Laval –, formano nel 2014 l’ossatura di quelli che diventeranno i Men I Trust. È infatti solo con l’arrivo di Emma Proulx nel 2016, musa creatrice, che la formazione trova la sua definitiva dimensione. Negli anni seguenti, la band si esibisce in diversi contesti indipendenti, producendo numerosi singoli e arrivando a suonare nei palchi secondari dei grandi festival, come il Coachella e il Lollapalooza, finendo per raccogliere i frutti del loro percorso nell’apprezzatissimo album Oncle Jazz.
Tra il 2020 e il 2021, durante la fasi intermittenti dei lockdown mondiali, i Men I Trust si palesano a un pubblico di ascoltatori più ampio, grazie soprattutto alla creazione di contenuti video dalle atmosfere spontanee e casalinghe nei garage, nei soggiorni o davanti a una vecchia auto parcheggiata di fronte a una foresta, intervenendo anche nel seguitissimo calderone del Tiny Desk con un Home Concert. Questa serie di live, in contesti intimi e privati, diventeranno apprezzatissimi dal pubblico di area alternative e contribuiranno a formare una scena eterogenea di fan fedelissimi sparsi per il globo, tanto da pubblicare la raccolta Forever Live Session nell’estate del 2020 e a seguire un nuovo disco, Untourable Album.
In un mondo in cui tutto scorre alla velocità della luce, con l’ansia da classifica e la glorificazione dei risultati economici oltre il prodotto e dell’immagine oltre il contenuto, i Men I Trust sono qualcosa che mancava, una mosca bianca. Era ciò di cui una fetta di pubblico dall’animo calmo, o semplicemente nostalgico dell’era d’oro degli unplugged, sentiva di avere il bisogno.
C’è un filo invisibile che connette i musicisti in quell’area dell’occidente appena sotto il Circolo Polare Artico, che va dalla Scandinavia al Canada, passando per l’Islanda. Comunità medio-piccole, iper-connesse con il mondo contemporaneo ma circondate da immense aree naturali isolate dal clima ostile, incontaminate. C’è qualcosa che unisce Neil Young, Alanis Morissette, Björk, i Sigur Rós, i Kings Of Convenience e i Röyksopp.
I confini verdi e solitari dell’estremo nord del mondo, uniti al bagaglio culturale della musica occidentale e ai suoi strumenti tipici portano gli artisti a un particolare mood che accomuna generi apparentemente così diversi. Emma Proulx, parlando del Quebéc, ha ammesso che è un vero e proprio stile di vita: «Ci ha messo in uno stato d’animo davvero creativo e diverso e siamo stati in grado di concentrarci di più, perché non c’è niente da fare fuori casa se non camminare e pensare alla musica».
I quattro anni passati tra l’ultima uscita ufficiale e le tre del 2025 non sono stati una vera e propria frattura nella percorso: il merito sta nell’approccio creativo completamente indipendente. La loro produzione è fisiologica e fa quello che un’etichetta o una major non potrebbe fare, come rinunciare alla ricerca ossessiva di una hit da classifica, agli studi strategici, le analisi, l’obbligo di partecipazione attraverso post e reel sui social, i rapporti di marketing pronti a massimizzare le visual e gli stream. Una produzione talmente naturale negli spazi e nei tempi espressivi che, sfruttando nel modo migliore le piattaforme libere di internet, lascia il piacere della scoperta all’ascoltatore, la gioia di aver capito e apprezzato un prodotto apparentemente di nicchia, ma che parla in modo intimo di una parte di noi. Persino la discutibile abitudine contemporanea delle etichette di rilasciare numerosi brani teaser degli album, di fatto spoilerando l’opera quasi nella sua completezza, in questo caso è più che giustificata dal loro modus operandi: un continuo corso d’opera, senza mai sottostare ai paletti delle fabbricazioni tradizionali.
Poco dopo l’uscita a sorpresa nel febbraio 2025 – una seconda raccolta di live – Forever Live Sessions, Vol.2, la band annuncia attraverso i suoi canali l’imminente uscita di due nuovi album con queste parole: «Fin dalle prime fasi di scrittura e registrazione, ci siamo resi conto di avere una raccolta di canzoni con energie distinte ma ugualmente significative per noi. Ci è apparso chiaro che volevamo pubblicarle come due entità separate, entrambe appartenenti allo stesso genere: Equus Asinus ed Equus Caballus», aggiungendo in un comunicato sul loro profilo Bandcamp che si tratta del «lavoro più grande e di cui siamo più orgogliosi finora».
Così, le aspettative per la relativamente ristretta cerchia di fan diventano altissime: a marzo partecipo al listening party in anteprima della prima uscita, Equus Asinus, documentando una fanbase entusiasta ma estremamente rispettosa, distante dall’attitudine da culto eccessivo tipico di quello delle celebrities mainstream. Nonostante l’euforia nei commenti durante lo streaming, rimango in parte deluso dalla piega presa dal disco: la tavolozza sonora si è decisamente spostata verso una dimensione folk acustica e in generale tutto il lavoro sembra una splendida collezione di B-Side, dove però manca il groove in cui il basso di Jessy Caron è solitamente protagonista.
Intendiamoci: alcuni brani sono più che piacevoli. Le atmosfere evocate dalla band sono qualcosa di raro: i loro stilemi e l’unione tra la voce di Emma Proulx, l’uso dell’impianto di effetti analogici, la batteria delicata d’ispirazione jazz e i giri di basso più delicati sono un’amalgama preziosa, ma il tutto rischia di annoiare. Un disco difficilmente contestualizzabile al di fuori della cafè-music – specialmente nella sezione centrale Burrow, Girl – e passaggi strumentali come Paul’s Theme sono sì estremamente low-fi e dal sapore delizioso, ma fin troppo vintage, più adattabili a un contesto cinematografico piuttosto che a un live. Attendiamo quindi la seconda uscita, come prevedibile antecedente i tour primaverili ed estivi.
Il 6 maggio esce Equus Caballus, che rende finalmente esplicita l’energia distinta con cui hanno presentato le tracce e la logica della doppia uscita prende forma: questo secondo disco è così efficace, che giustifica la decisione di separare i lavori. To Ease You, in apertura, è una freschissima nota pop dai suoni 80’s; a seguire, Come Back Down ricorda le atmosfere dream pop dei Fleetwood Mac. I Men I Trust sono anime giovani, ma con una maturità che non sembra appartenere al presente. Emma è un diamante: una frontgirl dotata, intelligente, timida e preziosa. Hard Too See è un architettura nordica, i suoni di tastiera e la voce di Emma si mischiano a una sezione ritmica eterea e distinta.
Il valore aggiunto del disco sta nel posizionamento alla quarta traccia di Ring Of Past, il brano più fruibile e nostalgico nei temi, già anticipato come singolo assieme ad Husk e Billie Toppy, tutti remixati e masterizzati all’Université Laval dove tutto ebbe inizio. Le sensazioni, arrivati ad Another Stone, sono le stesse che potresti avere ascoltando per la prima volta uno dei primi lavori dei Kings Of Convenience: per apprezzarli bisogna entrare, essere fisicamente nel mood. Gli arpeggi ripetitivi, le soluzioni armoniche ti buttano dentro il verde e il freddo della natura canadese, come se una sottile nebbia facesse scomparire l’orizzonte dei pensieri.
I Men Trust non sono una band, sono un sentimento. La si rivede in Husk, questa emozione, una traccia che è una gioia per chi gode della melancolia.
Quando in musica si parla di standard, ci si riferisce a brani o a riff talmente entrati nel tessuto culturale dall’essere riconosciuti immediatamente da appassionati e facilmente ripetibili da musicisti anche amatoriali. L’estro di questi ragazzi sta nel riproporre – forse per imprinting o per osmosi – una rielaborazione efficace di nuovi standard. In Carried Away sembrano confermare questa tesi, rilanciando le ambientazioni del migliore soft rock acustico anni ’90, ruffiano ma complesso nelle architetture compositive e nei testi.
Persino passaggi più ritmati ma funzionali come Where I Sit contribuiscono alla tessitura di un lavoro che torna in crescendo con In My Ears, per arrivare a Billie Toppy, il terzo singolo. Worn Down è invece il figlio educato e meno dissonante di un brano dei Sonic Youth, ma l’intenzione ritmica è simile, ed è meraviglioso.
Insomma, il disco è nel complesso una rara e preziosa combinazione di menti artistiche che hanno avuto la fortuna di ritrovarsi nella stessa tempolinea.
La celebre rivista di recensioni Pitchfork spesso chiede a musicisti o addetti ai lavori quali siano i loro Perfect Ten, ossia gli album a cui attribuirebbero il massimo punteggio. Sono convinto che dare un voto a un’espressione dell’animo sia riduttivo, ma se dovessi scegliere il mio Perfect Ten, Equus Caballus sarebbe il mio personale disco del 2025. Le scelte estetiche sono accurate, il mood generale è una fusione di elementi dell’alternative degli ultimi 40 anni tra acustica, dream pop, elettroniche vintage ed effettistica analogica. Il mix e il mastering del disco sono curatissimi, una combinazione di suoni definiti in ambiente smooth e low-fi. Un rarissimo uso sapiente e raffinato della tecnica per esaltare la naturalezza delle loro virtù: ascoltare questo disco in cuffia è come ritrovarsi con gli amici davanti al caminetto durante una notte fredda e piovosa.
Se da un lato mi piacerebbe vedere i Men I Trust più in alto nelle classifiche così da poterne parlare con tutti, dall’altro, forse, sono più felice così.
In fondo, se questo disco è così bello è anche proprio merito del fatto che la loro dimensione è riservata e non influenzata dai contenuti virali, dalle logiche di classifica e dalle major discografiche.