Chi meglio degli …A Toys Orchestra per approfondire le ombre del music business e l’evoluzione sociale e artistica della musica indie? Abbiamo chiesto a Enzo Moretto del passato e del futuro, di compromessi e integrità, delle contraddizioni di un’attualità in cui si passa dalla Palestina a OnlyFans, senza mai smettere di scrollare
Subito dopo la chiusura del loro Summer Tour al Todays Festival – qui la nostra recensione della serata – abbiamo sentito il bisogno di approfondire la carriera degli …A Toys Orchestra. Nomen omen: nell’attuale formazione, Enzo Moretto, Ilaria D’Angelis, Raffaele Benevento, Alessandro Baris e Mariagiulia Degli Amori formano un’orchestra dal suono in continuo mutamento dove sono proprio i componenti a fungere da giocattoli interscambiabili, impegnati in una danza armonica che non abbandona mai una traiettoria delineata dalla matrice musicale propria della band, ma che al contempo rende imprevedibile ed entusiasmante il loro live.
All’attivo dal lontano 1998, il gruppo porta avanti il suo percorso artistico preservando l’indipendenza – pratica e ideologica – che li contraddistingue. In questa chiacchierata con il frontman e liricista Enzo Moretto, affrontiamo temi attuali e profondi che accomunano chiunque lavori nel famigerato mondo del music business.
Il vostro ritorno discografico è avvenuto a fine marzo con Midnight Again. Il paradosso della mezzanotte, un po’ come per il gatto di Schrödinger, è quello di sospendere il tempo in un limbo tra passato, presente e futuro. Un’analogia azzeccata, dopo sei anni dall’ultimo lavoro: ricominciare è sempre un’esperienza che porta con sé un carico emotivo non indifferente. Ora – dopo aver terminato il tour estivo e portato in giro il vostro repertorio – come ti approcci al futuro? Senti che il tempo ha ripreso il suo cammino?
Beh sì, in qualche modo il tempo ha ripreso il suo cammino. O meglio, adesso si può dire che ha ripreso a scorrere in maniera più cadenzata e funzionale. Pubblicare un disco e tornare in tour ti obbliga a osservare delle scadenze, a organizzare e disciplinare il tuo tempo e a rapportarlo con quello di tante altre persone. Al futuro preferisco invece approcciarmi sbirciando con un solo occhio, non mi piace programmare sul lungo termine, preferisco concentrarmi su quanto ho da fare volta per volta. Nuovi progetti e nuovi stimoli arriveranno e si formeranno spontaneamente e sarà quello il momento giusto per capitalizzarli.
I tuoi testi, soprattutto in quest’ultimo lavoro, non nascondono un vissuto difficoltoso e sembrano porre l’attenzione sull’indifferenza che l’attuale società riserva al tema della salute mentale. Depressione e solitudine vengono spesso censurate dal discorso: vige una regola non scritta per la quale sentiamo il dovere di “doverci rialzare”, anche quando il processo di guarigione non è ancora compiuto. Ascoltando il primo singolo estratto Life starts tomorrow, si percepisce l’ironia e la critica alle etichette sociali che regolano il music business, dove viene precluso l’accesso a chi non riesce ad aderirvi. Quanto, questi concetti, sono presenti nella composizione con un’intenzione di messaggio sociale e quanto, invece, di pura condivisione?
I testi in quest’ultimo disco sono un cut-up di pensieri e osservazioni, un rimugino ossessivo di un overthinker conclamato. Dentro le parole ci sono ferite aperte che sanguinano copiosamente, qualche cazzotto sferrato e tanti altri ricevuti, ma devo dire che quello che tiene tutto in piedi è la banalissima “luce in fondo al tunnel”. Non nascondo che recentemente ho attraversato anni difficili dove un po’ mi sono perso e la mia vita è diventata un gran casino, ma grazie al cielo a un certo punto poi riesco anche a riderci su. D’altronde, il mondo che viviamo oggi è una contraddizione emozionale costante, tragico e comico. Tutto appare lecito, sdoganato, l’asticella viene portata sempre più in avanti. Non ci spaventa più il dolore, la sofferenza: tutto si traduce in spettacolarizzazione, in meme, in reels, in cinismo, numeri e danaro. Sessualità, guerre, violenza, morte… tutto sdoganato, tutto desensibilizzato. Puoi startene seduto sul gabinetto a scrollare il telefono e vedere un cecchino che fa saltare la testa a un ragazzo in Palestina e alla scrollata successiva trovare Michelle Comi che parla alla Zanzara. Viviamo un tempo così tragicamente assurdo che fa il giro da capo e fa quasi ridere. Il vero tabù oggi sono i sentimenti, le debolezze, le imperfezioni. Siamo terrorizzati dal mostrarci fragili, sensibili e talvolta persino intelligenti. Distopia pura. La bellezza però seppur nascosta si annida sempre da qualche parte… bisogna cercarla, difenderla, provare a generarla e diffonderla senza mai darla per vinta.
Parliamo di musica: la vostra carriera nasce negli anni d’oro dell’indie italiano. Con una matrice alt-rock ma, sin da subito, un’impostazione orchestrale che vede l’utilizzo di voci e strumenti come amplificatori dello scheletro di ogni pezzo. La vostra musica è composta da vari layers di complessità, che caratterizzano un stile identificativo: da Peter Pan Syndrome – un pezzo al quale sono molto legato –, passando per Powder On The Words; sino ad arrivare all’ultimo album, dove il concetto viene sublimato con un’immersione nel soul e nel jazz. Hai dichiarato che «È stato un po’ come ri-arredare casa» e la domanda sorge spontanea: quali sono i pezzi di arredamento imprescindibili, da portare ogni volta nei vostri “traslochi musicali”?
Non deve mancare mai la curiosità, la volontà di immaginarsi in una nuova prospettiva, il coraggio di mollare ogni certezza e una buona dose di quella che dalle mie parti si chiama la “cazzimma”. L’irrazionalità combinata all’amore sono gli elementi imprescindibili per consentirci di mutare forma senza intaccare la sostanza.
L’it-pop ha riportato in voga il termine indie, prendendolo in eredità dagli anni ‘00, ma snaturandone il concetto. Torino è una delle città in cui, in contrapposizione a questo, ancora persiste un fermento alternativo e indipendente. Il compromesso da accettare per poter condividere la propria musica e crearsi un’audience in ricezione, rappresenta ancora un dibattito sempre aperto sulla scena. Poche realtà, come la vostra, possono permettersi questo status. Qual è secondo te il limite oltre il quale non avventurarsi per preservare l’integrità artistica, ma sopravvivere in questo ambiente? Qual è il vostro approccio, come band, verso i compromessi?
L’indie nel nostro paese è stato sempre un termine un po’ sfortunato. Ai suoi albori saltarono tutti sul carrozzone, poi qualche anno più tardi provarono tutti a smarcarsene, quasi fosse diventata un’offesa, un’onta. D’un tratto poi la ragione sociale è stata sfacciatamente derubata e totalmente snaturata dalle multinazionali e dai grossi networks e quindi tutta la old-school, che poco prima aveva abbandonato l’indie, era tutta lì a rivendicarne il furto e il vilipendio. E allora qualcuno si è inventato il termine it-pop, un tentativo maldestro di spacciare la musica leggera per proposta alternativa e fu così che ci ritrovammo tutti a guardare Sanremo come fosse il festival di Reading. Dell’indie io oggi mi tengo stretto l’etimologia “indiependent”. In un certo senso, l’unico compromesso che abbiamo accettato nella nostra carriera è proprio quello di non accettare compromessi che ledessero la nostra natura, la nostra idea e la nostra libertà; dunque la nostra indipendenza, accettando di buon grado tutto quanto ne consegue.