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Daddy G e la via della bassline: tra Bristol, Torino e visioni globali

Il sound ipnotico e viscerale di Bristol scuote Torino: al Binario 3 delle OGR, la leggenda Daddy G incontra l’estro degli artisti locali, dando vita a un mix glocal di bassi profondi e groove infuocati


Dopo il concerto tutto esaurito della scorsa estate al Todays Festival con i Massive Attack, Daddy G, all’anagrafe Grant Marshall, fa di nuovo sold out a Torino con una serata che si prospetta intensa, lasciando immaginare che, comunque vada, non sarà un banale sabato sera.

D’altronde, stiamo parlando di uno dei pionieri del Bristol Sound e creatori del trip-hop, la risposta sonora a un periodo segnato da profonde fragilità: evocativa, introspettiva e malinconica, è stata spesso associata a liriche riflessive, sussurrate, dando la sensazione cinematografica di una lunga passeggiata sotto la pioggia. Spesso descritto come un ibrido tra hip-hop, dub, jazz ed elettronica, le sue radici affondano nello spirito DIY (do it by yourself) e attraversano più movimenti e generazioni.

Negli anni Settanta e Ottanta, la città di Bristol era un concentrato di tensioni sociali e mescolanze culturali. Da una parte, il declino industriale e la disoccupazione colpivano duramente la working class britannica, generando un senso di alienazione che il punk avrebbe alchemizzato in rabbia e resistenza. Dall’altra, la forte presenza di una comunità afrocaraibica portava con sé la cultura del dub e dei sound system, trasformando la città in un laboratorio sonoro a cielo aperto.

I Bristol Riots del 1980 segnarono uno dei momenti più tesi della storia della città: a St. Paul’s, quartiere simbolo della comunità nera, gli scontri tra giovani e polizia furono il riflesso di un malessere profondo. Se il punk canalizzava la frustrazione attraverso riff taglienti e testi diretti, l’hip-hop, arrivato nel Regno Unito dai ghetti di New York, trasformava il turntablism e l’MCing nell’ariete che sfondava il muro del razzismo istituzionale.

Le rivolte della comunità multietnica di Bristol scatenarono un’onda da cui emerse il collettivo The Wild Bunch: con un’attitudine anarchica e sperimentale, Daddy G, 3D, Mushroom, Nellee, Willy Wee e Dj Milo mescolavano i beat rap con le atmosfere dub e soul, creando un sound tanto esistenziale quanto politico che fu spinto al massimo negli anni Novanta e primi Duemila, quando la crew si trasformò nei Massive Attack. Il documentario Unfinished: The Making of Massive Attack custodisce una breve ma esemplare testimonianza di quei giorni. Guardandolo, mi chiedo come risuoneranno gli echi dei riot e dei sound system questa sera, in questo spazio che ricorda molto una cattedrale, con le pareti di mattoni a vista, i soffitti alti e le strutture in acciaio a testimoniare l’originaria vocazione come officina di riparazioni ferroviarie.

Dopo una cena veloce al social table di Snodo – ormai un rito prima di un live alle OGR – ci dirigiamo verso il Binario 3 dove ci aspettano tre performance, ognuna con una propria identità. Si parte con i FIRE, collettivo artistico che unisce elettronica, jazz, dub e visual art in un unico flusso immersivo. Sul palco, il trombettista Ivan Bert (Dark Magus Orchestra, Emma for Peace), il sassofonista Gianni Denitto (Zion Train, T.U.N.), il chitarrista e polistrumentista Marco Benz Gentile (Africa Unite, Meg, Architorti), il produttore FiloQ (Istituto Italiano di Cumbia, Uhuru Republic, Almamegretta) e il produttore Albino D’Amato (Almamegretta, Peppe Barra, Enzo Avitabile, Eugenio Bennato, Li che’, Geolier). Per l’occasione, si sono uniti il vibrafonista Pasquale Mirra (Mop Mop, C-mon Tigre) e l’artista visivo Ricky Akasha Franco-Loiri.

Nomen omen, il live inizia come un soffio caldo e vellutato, poi si innalza in un crescendo che divampa come un incendio. I bassi scandiscono il ritmo di una cerimonia in cui tromba e sax si intrecciano come lingue di fuoco. Il suono si espande, si trasforma, diventa materia viva nell’interplay tra i musicisti. D’Amato interviene plasmando il flusso sonoro in tempo reale. Nessuna rete di sicurezza, nessuna sovrastruttura: è una creazione istantanea e istintiva, che si oppone all’iperproduzione contemporanea e restituisce al live la sua essenza più autentica.

L’esperienza è amplificata dai visual di Akasha: un montaggio serrato di immagini che sfumano e si sovrappongono in dissolvenze ipnotiche. Volti di nativi dell’Amazzonia, città e savane, proteste e cerimonie notturne, corpi e animali fusi in un’unica visione onirica. Il fuoco è ovunque – nelle immagini, nel suono, nel flusso che si propaga dal palco alla sala. Tira un’aria densa, magnetica. Il pubblico si lascia trasportare in questa trance collettiva mentre sul palco i musicisti ondeggiano con la stessa intensità, immersi nel rito che hanno creato. I FIRE lasciano decisamente il segno, accendendo una scintilla che ci conduce all’headliner della serata.

Quando sale in consolle, Daddy G non si concede proclami né celebrazioni: lascia che sia la musica a parlare. Il suo set scorre fluido, costruendo un viaggio d’andata per Bristol in cui le bassline vibrano sotto pelle e ogni traccia si incastra con la successiva in un equilibrio di double drop perfettamente calibrato. Ci si aspettava forse qualche accenno politico, almeno nei visual, ma tutto resta essenziale. Il set è minimale e di scambi d’intesa con il pubblico nemmeno l’ombra, ma nelle trame sonore si svela una cultura musicale enciclopedica. È un live che ci dimostra, ancora una volta, perché Grant Marshall resta un monumento vivente del Bristol Sound.

A seguire, il set serrato di Umberto Milanesio, con il format Recall, segna il terzo e ultimo capitolo della notte. Recall, che con OGR ha curato l’intero evento, ci catapulta nel territorio del clubbing. I ritmi si fanno più dritti e l’atmosfera vira verso il Club to Club: un approdo inevitabile, visto dove ci troviamo, dopo un viaggio sonoro che ha toccato molte latitudini.

Tre cambi palco, tre narrazioni, un’unica traiettoria: Torino e Bristol si sono incontrate sulle stesse frequenze, dando vita a una serata dalla spinta cosmopolita. La musica non ha radici fisse, ma ovunque trovi ascolto, diventa rifugio e dimora.

 

foto di Elisabetta Ghignone

Jelena Bosnjakovic

Cresciuta a bagna càuda e rock 'n roll jugoslavo. Comunicatrice e viaggiatrice. Può essere la musica un metro di giudizio? Sì. Siamo ciò che ascoltiamo.

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