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Con Moisturizer, le Wet Leg tornano a farci sperare

Il fenomeno Wet Leg non delude. Moisturizer, l’atteso secondo disco uscito ieri per la label Domino, è ricco di ispirazioni alternative, riuscendo nell’intento di essere cool senza tuttavia risultare pretenzioso


Nel 2021, il singolo d’esordio Chaise Longue aveva scalato dapprima le classifiche social, raccogliendo poi il (meritato) plauso della critica. Il secondo singolo, Wet Dream, è stato accolto dal settimanale Variety con questa frase: «È raro che una nuova band pubblichi due singoli e siano entrambi fantastici».
Il disco omonimo, uscito nella primavera del 2022, rappresenta uno degli esordi più fulminei, rari e sorprendenti degli ultimi anni per un progetto davvero indipendente, che realizza i brani con le sole proprie forze: senza il sostegno di squadroni di produttori per la musica e novellieri per i testi. Pura energia espressiva per il duo dell’Isola di Wight, luogo da sempre immerso in una scena musicale viva e mutevole, anche grazie al fatto di aver ospitato l’epico festival di controcultura hippie svoltosi tra il ’68 e il ’70, in cui suonarono praticamente tutte le leggende del rock della seconda metà del ‘900.

Così, il debutto delle Wet Leg è subito schizzato al vertice delle classifiche in Regno Unito e Australia, rientrando nella top ten di diversi paesi in Europa e nella top twenty negli Stati Uniti. Si fanno poi trovare pronte alla prova dei live come supporto ad Harry Styles nel tour in Oceania: grande attitudine sul palco e coerenza tra gli stilemi adottati nei video e l’immagine percepita. La band vincerà poi due Grammy tra cui il Best Alternative Album, poi il Best New Artist e Best British Group ai Brit Awards del 2023. Chiude poi il cerchio l’esordio al Coachella, che vanta la comparsata di Dave Grohl durante la performance di Ur Mom.

L’attesa del nuovo lavoro delle ora trentenni Rhian Teasdale e Hester Chambers faceva un po’ paura, perché il fatto che qualcosa in area alternative diventasse (quasi) trasversale sembrava troppo bello per essere vero. Che cosa aspettarsi? Uno splendido one-album wonder, seguito da una virata verso pretese da classifica, tatticismi e produzioni plastiche? I singoli precorsi e le anticipazioni presentate al Tiny Desk suggerivano invece tutt’altro: in Moisturizer gli esperti turnisti Joshua Mobaraki, Ellis Durand, e Henry Holmes, tutti co-isolani delle fondatrici, diventano membri fissi della band e partecipano attivamente nel processo creativo, rinnovando l’intesa maturata nel percorso con concretezza.

La voce di Rhian manifesta la sua notevole versatilità già in apertura del nuovo album, con il singolo CPR e in Liquidize: le ispirazioni spaziano dal post-punk all’alt-new wave, passando dal britpop anni ’90. Le chitarre sono graffianti, le linee di basso decise e la costruzione dei pezzi dinamicissima nell’alternanza delle strumentali. Catch These Fists è un muro di suono: la sensazione è quella di ascoltare una garage band intenta a divertirsi tra le mura private, senza la pretesa di essere innovativi o di rottura ma portando avanti la legacy di band dal sound sporco, con riff dissonanti ma decisi nei 4/4 e nelle linee di basso precise, accompagnate da una voce calda, provocante e da melodie orecchiabili nel segno dei migliori Garbage. In effetti, il testo è un attacco nei confronti di quella mascolinità viscida che impedisce a un gruppo di ragazze di ballare da sole, in linea con le critiche alla manosfera di Shirley Manson. Insomma: quant’è esplicita la frase «You wanna fuck me, I know most people do» nel ritornello? dai!

In Davina Mccall ritroviamo le sonorità degli esordi, nel contesto di un disco in cui si alternano tematiche più selvagge a temi sorprendentemente sensibili. Jennifer Body e Mangetout, infatti, sono due perle al centro dell’album in cui si alternano liriche intimiste a prese di coscienza nei confronti dell’opportunismo tossico, strizzando l’occhio a sonorità di band storiche dell’alternative e del britpop a trazione femminile, come Veruca Salt o Elastica.

L’avvicendamento di passaggi più morbidi, come nell’ottava traccia Pokemon, arricchiti dalle intuizioni al sintetizzatore di Mobaraki in perfetta sinergia con le metriche vocali di Rhian Teasdale e da una sezione ritmica convincente, sono funzionali a tenere viva l’attenzione senza la necessità di dover mostrare costantemente i muscoli – che in ogni caso ritorneranno, più avanti nella tracklist, con i fuzz di Pillow Talk e le distorsioni e i bending di Don’t Speak –.

11:21 è un brano particolarmente evocativo, specialmente nella sua versione dal vivo al Tiny Desk. Una traccia di livello, ma che spezza decisamente il tiro del disco. Forse sarebbe stato più saggio inserirla in chiusura, prima della movimentata U And Me At Home, la più lunga del disco: accattivante, rumorosa, in pieno stile alternative britannico.

Moisturizer è un disco che mantiene le aspettative, innanzitutto perché è una sorpresa che una piccola band indie abbia retto il colpo del successo improvviso e imprevedibile al suo esordio. È un album duttile, orecchiabile, che all’apparenza potrebbe sembrare superficiale nelle scelte creative solo perché le tracce brevi, di durata post-punk, si appoggiano a un linguaggio comprensibile e diretto. Tuttavia, il disco nasconde un nucleo ricco di contenuti sovversivi, piccole ribellioni quotidiane che sono alla base di uno spirito cosciente della realtà, ingranaggio involontario di un sistema più grande di lui.
Il secondo lavoro delle Wet Leg è una vittoria per l’indie e il rock alternativo, qualcosa che potrebbe – o dovrebbe? – tornare al di fuori delle nicchie in modo intelligente, cool e per nulla pretenzioso.

Ruben Piccolo

Jack of all trades

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