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Bandabardò e Patagarri: la strada continua a produrre rarità

La quarta serata del Flowers Festival di Collegno è stata la festa della musica di strada, del folk, dell’irriverenza, dell’impegno e della partecipazione. Bandabardò e Patagarri uniscono le generazioni sotto un’unica bandiera, quella dei diritti, dell’impegno civile e della solidarietà tra gli esseri umani


«Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti». Lo scriveva Antonio Gramsci ne La città futura. Febbraio 1917, oltre un secolo fa. Oggi Gramsci ci odierebbe tantissimo, fortissimo. Non abbiamo imparato nulla, altro che progresso sociale, altro che giustizia. Uguaglianza? Solidarietà? Macché.

Nel silenzioso e melmoso deserto degli indifferenti, talvolta si riesce a scorgere un’oasi di speranza, un megafono di vitalità. Di illusi? Può darsi. È il popolo di chi prende parte, di chi non ci sta, di chi si ostina ad urlare il proprio dissenso per continuare a lottare e garantirsi un’esistenza dignitosa in un mondo più giusto. Un’utopia, certamente. La stessa però che ci si tramanda di generazione in generazione e che si manifesta sempre con le stesse modalità: la voglia di stare insieme, di ballare, cantare, urlare. Arte, colori, dissenso, sogni.

La quarta serata del Flowers Festival al Parco della Certosa di Collegno ha ospitato una buona rappresentanza del popolo dell’oasi, sopra e sotto il palco. Bambini, ragazzi e adulti, tutti insieme a scatenarsi sulle note della Bandabardò e dei Patagarri, due generazioni ben distinte di musicisti, ma accomunate dallo stesso milieu culturale, dalla stessa gavetta musicale, dalla stessa potenza comunicativa, dalla stessa energia. Dalla stessa voglia di raccontare storie, di far riflettere, di non nascondere la testa sotto la sabbia e reagire al cospetto delle ingiustizie con le uniche armi in loro possesso, ovvero l’arte e l’ironia.

Freschissimi di primo album, L’ultima ruota del caravan, i Patagarri confermano anche sul palco di Collegno tutto ciò che di buono si è detto di loro in questi mesi. Divertenti, ironici, coinvolgenti, alternano momenti di pura follia collettiva a sezioni emozionanti e introspettive, senza mai lesinare sulla pulizia tecnica, senza mai perdere la purezza dell’animo buskers, «senza mai perdere la tenerezza», avrebbe detto un noto medico di Rosario di nome Ernesto.

Saranno anche giovani, saranno anche passati dal tritatutto dei talent televisivi, ma Francesco Parazzoli (tromba e voce), Arturo Monaco (trombone e percussioni), Jacopo Protti (chitarra), Daniele Corradi (chitarra) e Giovanni Monaco (clarinetto e sassofono) hanno già tantissimi chilometri nel motore e svariati anni di studio alle spalle. Insomma, artisti di strada sì, ma cum laude. Lo si capisce già dai primi brani di apertura, Tutti quanti voglion fare jazz e Diavolo, che in pochi minuti convincono almeno un migliaio di persone ad abbandonare le postazioni laterali, dove ancora si percepiva dell’ombra e una vaga sensazione di frescura, per infoltire la porzione centrale del pit. Ci sono già tutti gli elementi che contraddistinguono il quintetto milanese: la voce graffiante, in tutti i sensi, di Francesco, che si dimena, molleggia, alterna versi a suonate di tromba, sorride ma scarica bordate con le parole; ci sono gli assoli di clarinetto e sax di Giovanni; c’è l’instancabile ritmo gipsy delle mani destre di Jacopo e Daniele; c’è la follia creativa di Arturo, che non si sa come riesca a suonare la batteria mentre soffia nel trombone.

Novelli cantastorie dell’epoca contemporanea, i Patagarri ci raccontano di miserie e sotterfugi, di persone ai margini della società che provano colpi disperati (Il pollo e La banca in pieno centro), di sgangherati spacciatori di provincia (Willie), di lotte di classe tra camionisti e rampolli in Ferrari («Trenta anni d’invidia su un trasporto eccezionale»), del riscatto di corpulente signore ignorate nell’Occidente dell’apparire e idolatrate nella terra dei Faraoni (Egyptian Ella). Ci parlano anche di Sogni, come quelli che stanno realizzando questi scalmanati artisti di strada in piena corsa verso le stelle: «È bellissimo essere qui, è bellissimo poter girare l’Italia suonando la nostra musica!».

In mezzo, anche alcune cover molto particolari, come Io vengo dalla luna di Caparezza, St. James Infirmary, brano di antichissima data reso celebre da Louis Armstrong e Summertime di George Gershwin. Senza dimenticare “la pietra dello scandalo”, ovvero Hava Nagila, un canto di gioia, libertà, orgoglio e senso di appartenenza della comunità ebraica, composto nel 1918 per celebrare la dichiarazione Balfour dell’anno precedente, in cui il governo britannico, nell’ambito della spartizione post primo conflitto mondiale dei territori appartenenti all’Impero Ottomano, si impegnava a creare una «dimora nazionale per il popolo ebraico» in Palestina. Presenza fissa nella scaletta dei Patagarri per la piacevole melodia e l’ottima resa live, durante lo scorso Concerto del Primo Maggio i ragazzi hanno voluto inserire l’urlo «Free Palestine» ritmato e reiterato, cosa che ha mandato su tutte le furie la comunità ebraica di Roma che definì “macabra” l’esibizione. Inutile dire che la cosa sia stata replicata in tutto e per tutto anche sul palco della Certosa, riscontrando ampio consenso tra la folla.

Con il favore della sera e raggiunto il picco di pubblico, peraltro già ben caldo e attivo dopo lo show di apertura che si è protratto abbondantemente oltre l’ora, la Bandabardò spara subito un trittico di classiconi di un certo livello: Sette sono i re, Girotondo e Sempre allegri, giusto per gradire. La formazione è quella di sempre, con Don Bachi, Orla, Nuto, Ramon e Pacio, ma adesso alla voce c’è Finaz, al secolo Alessandro Finazzo, cofondatore della band insieme al compagno di mille concerti e amico di una vita Enrico “Erriquez” Greppi.

Il sodalizio fiorentino ha ritrovato un nuovo equilibrio dopo la prematura scomparsa del frontman nel 2021, rinsaldando ancora di più la coesione interna e mantenendo inalterata la propria identità artistica. Ripartendo da queste solide basi, la band si è rimessa a lavorare alla produzione di nuovi brani e lo scorso marzo è stato pubblicato Fandango, dodicesimo album in studio di una serie cominciata con Il circo mangione del 1996. Da qui è tratta Notti di luna e falò, delizioso e toccante omaggio a Erriquez («Vai a colorare il tuo mondo che vorresti abitare / canta Amore alle persiane e alle gambe di Nanà») che ha rappresentato indiscutibilmente il picco emotivo della serata.

Una serata che è scivolata via festosa, in cui si sono dilettati al canto anche Andrea “Orla” Orlandini con Mojito F.C. e il mitico Ramon – che tanti di voi avranno già visto all’opera anche come percussionista nella resident band del programma televisivo Propaganda live –, che con il suo inconfondibile accento cubano si è divertito a scherzare sul colore della sua pelle durante l’intro di Beppeanna, ovvero l’arpeggio di Comme facette mammeta («Meloni, Salvini, La Russa, così mi ha fatto mamma»).

L’articolata scaletta non poteva non prevedere anche alcuni momenti di riflessione su temi socialmente rilevanti, come il cambiamento climatico (Lo sciopero del sole) e l’accoglienza (Sans Papiers) e l’intramontabile Manifesto, durante la quale Finaz si è eretto capopopolo con tanto di megafono in mano: «Manifesto per la libertà, la giustizia, per un paese che non lascia indietro nessuno, manifesto perché voglio vivere in un paese antifascista!».

Finale pirotecnico con clima da ultimo giorno di scuola. Salgono i Patagarri sul palco ed è tutto un trionfo di fiati e chitarre battenti. Finaz la tocca piano: «Non abbiamo provato nulla, ma questa è la musica vera quella fatta sul palco senza basi registrate», poi Francesco Parazzoli soffia nella tromba una sequenza di cinque note abbastanza famosa: Si / Mi / Fa / Sol / Mi, che nella testa di tutti suonano «U-na-ma-tti-na». Esatto, parte una pazza Bella ciao corale di stampo balcanico à la Bregović. Tutto molto bello, anche se, volendo trovare il pelo nell’uovo, la bandiera della Palestina nel led wall alle spalle degli artisti risulta un filo forzata e ridondante.

In ogni caso, nel dubbio, è meglio reiterare un buon messaggio, sempre nel solco degli insegnamenti gramsciani, perché «vivere significa partecipare e non essere indifferenti a quello che succede».

Foto di Natalia Menotti 

 

Attila J.L. Grieco

Giornalista, cantante, esperto di comunicazione. Ma ho anche dei pregi, come essere riuscito a farmi battezzare Attila, nascere nell'anno di uscita dell'omonimo e celeberrimo film e condividere con il suo protagonista capigliatura, giorno del compleanno e squadra del cuore.

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