Better Days è il format mensile ideato da Andrea ‘Passenger’ e Claudia ‘Famosini’ Losini, dedicato a esplorare i retroscena meno noti delle scene musicali e del clubbing, ripercorrendo il passato per comprendere meglio il presente e meditare sul futuro.
Ospitato all’Imbarchino del Valentino, l’appuntamento di dicembre ha approfondito la cultura ballroom, dalle sue origini nella comunità nera, latina e queer di New York degli anni Settanta fino alla sua ascesa al mainstream. A condurci in questo viaggio c’erano KenJii BenJii – artista e perfomer – e Ava Hangar, drag queen e dj
Stati Uniti d’America, anni Settanta. Mentre il mondo cantava con Liza Minnelli New York, New York, alimentando l’immagine di una città sfarzosa, terra promessa di sogni e gloria, un’anima underground aveva preso parallelamente forma: pulsante, notturna, trasgressiva. In questa dimensione alternativa, i club erano i principali rifugi per le comunità più emarginate. Tra questi, il Better Day, inaugurato nel 1972 al 219 West 49th Street, fu per anni un importante punto di riferimento per la comunità queer nera della città.
Il Better Day non era solo un club; rappresentava un santuario per coloro che cercavano un luogo sicuro dove esprimersi liberamente, lontano dai pregiudizi della società esterna. La pista da ballo era il terreno di liberazione, mentre la musica infervorava i corpi a ritmo di funk, soul e disco music, fino ai primi battiti di quella che sarebbe diventata la musica house. A coordinare le danze, si sono susseguite alla console alcune delle figure più innovative della scena di allora, tra cui la troppo poco citata Bert Lockett, prima resident dj del locale.
Sebbene i tempi d’oro del Better Day siano stati fondamentali nell’evoluzione del clubbing, ospitando le notti che hanno plasmato le basi del djing, il suo contributo è stato pressoché dimenticato, oscurato da locali più blasonati come lo Studio 54, il Paradise Garage e il Gallery.
Ciò nonostante, questo nome continua a evocare un ideale di speranza e libertà, una promessa di “giorni migliori” che si costruiscono nel presente. A oltre cinquant’anni di distanza, questa visione è stata ripresa e reinterpretata a Torino dove Better Days, il format ideato dal dj Andrea ‘Passenger’ e curato in collaborazione con la podcaster Claudia ‘Famosini’ Losini, ha trovato casa all’Imbarchino del Valentino. Ogni mese questo evento si propone di riportare alla luce storie rimaste nell’ombra, ma che sono altrettanto fondamentali per comprendere l’evoluzione della scena musicale, del ballo e del clubbing. Lo fa attraverso una formula semplice: un dj set in apertura, un momento di dialogo e di nuovo musica fino a tardi.
Nel primo appuntamento, Andy Martin, Fergus Murphy e Daniel Kaarill hanno parlato di All Dayer, evento mensile di casa a Copenaghen e che si ispira al Loft di David Mancuso. Nel secondo incontro, Marco Devenia e Barbara Menietti hanno raccontato la cultura della house dance, le comunità che ne hanno gettato le basi e la libertà espressiva di chi ci si immerge ancora oggi.
Il terzo appuntamento ha ospitato un confronto sulla cultura ballroom, intrecciando storie di lotta e resilienza con le esperienze personali delle ospiti, KenJii BenJii e Ava Hangar. Con loro abbiamo osservato come questo fenomeno sia nato dalla necessità di creare spazi sicuri per persone queer, nere e latine e come abbia costruito una comunità capace di trasformare la discriminazione in espressione artistica e culturale.
Siamo nella Sala Remi dell’Imbarchino, un ex deposito di barche che ha trovato nuova vita come spazio polifunzionale. Le 18:00 sono appena passate e Miss Lara è già alla console a scaldare l’atmosfera, lasciando fuori l’inverno freddo umido che si propaga dalle sponde del Po. Dopo una mezz’ora di set, l’attenzione è tutta per il talk.
KenJii ha introdotto la ball culture come un movimento nato negli Stati Uniti per rispondere a un doppio livello di discriminazione: da un lato, il razzismo sistemico che le persone nere affrontavano in una società biancocentrica; dall’altro, l’esclusione vissuta all’interno della stessa comunità nera a causa dell’identità queer. In questo contesto, le ballroom rappresentavano un luogo sicuro in cui diventava possibile sovvertire i pregiudizi e ribaltare gli stereotipi.
Questo spirito di sovversione e libertà creativa trova una delle sue massime espressioni nel drag. Ava ha spiegato come il travestitismo sia sempre stato un linguaggio performativo che decostruisce il concetto di genere; «Il drag è un gioco, una sfida ai binarismi, una celebrazione della libertà di essere chi si vuole essere», ha detto, collegando questa visione alla storia italiana del clubbing, dove le figure en travesti hanno sempre avuto un ruolo centrale, dal Cocoricò ai piccoli club di provincia.
Il talk ha poi esplorato il legame indissolubile tra la ballroom e la musica. KenJii ha raccontato come, nei primi anni Ottanta, la disco abbia subito una trasformazione cruciale, passando dal glamour a una dimensione più cruda e intima, strettamente legata alle realtà delle comunità oppresse. Questo cambiamento ha dato vita a sonorità essenziali e sperimentali, caratterizzate da ritmi marcati e bassi profondi, che riflettevano le lotte e le aspirazioni di chi viveva la scena. Brani come The Ha Dance non erano semplici accompagnamenti estetici, ma veri e propri inni, capaci di unire e dare forza a un’intera comunità durante le performance.
Tuttavia, le ospiti hanno anche sottolineato come l’ascesa mainstream della ball culture, trainata da fenomeni culturali come il celeberrimo brano di Madonna Vogue, abbia almeno in parte oscurato le ragioni per cui in origine nacque questo movimento.
Nel saggio Una storia della gioia collettiva (2024, elèuthera), l’autrice, sociologa e attivista politica Barbara Ehrenreich rifletteva su come il ballo sia una pratica antica quanto l’umanità stessa, nata per forgiare legami sociali e garantire la sopravvivenza collettiva. Le pitture rupestri testimoniano come i nostri antenati abbiano imparato a creare ritmi comuni per coordinarsi nella caccia o respingere i predatori. Questo significato primordiale del ballo, come atto al contempo di collante sociale e difesa collettiva, rimane sorprendentemente attuale, come dimostra la scena ball.
Better Days ci invita a osservare questi contesti non solo come spazi esclusivamente performativi, ma come luoghi in cui ballare diventa una forma di resistenza e ricostruzione di identità ferite. Attraverso pose, costumi e performance, le comunità marginalizzate rispondono alla loro ghettizzazione, trasformando il rifiuto in arte e rivendicazione. Il ballo torna così ad assumere il suo senso originario: un rito collettivo, uno spazio sicuro e un potente mezzo di autodeterminazione.
Per chi volesse partecipare all’evento, i prossimi appuntamenti da segnare in calendario sono il 19 gennaio e il 16 febbraio.