L’autunno 2025 si è aperto con il ritorno dei Ministri, trio rock milanese giunto all’ottavo album in carriera. L’ascolto di Aurora Popolare è un’occasione per riscoprirci in quanto comunità e, guardando al male del nostro tempo senza più paura, tornare a stringerci forte
Dell’osservare le derive del mondo circostante i Ministri hanno fatto la loro cifra artistica. Tutte le loro canzoni più amate sono riuscite nell’intento di descrivere il sentimento di sconforto di una generazione alla perenne ricerca di sé stessa. Da Non mi conviene puntare in alto a Comunque, passando per Gli alberi: il trio milanese brilla facendosi portavoce del disagio di una comunità delusa e amareggiata da tutto ciò che le danza attorno. Negli anni, due progetti emblematici sono stati il disco Tempi Bui (2009), in cui gran parte della tracklist si ispirava a fatti d’attualità, e l’EP Cronaca nera e musica leggera (2021), nato in risposta al primo anno di pandemia di COVID-19.
Dalla musica dei Ministri emerge spesso una rabbia lungi dall’essere autosufficiente, fortemente orientata alla condivisione di un dolore e alla creazione di una comunità. Proprio questo sentimento sembra risvegliarsi in Aurora popolare (2025), il loro ottavo album pubblicato il 19 settembre 2025 per Woodworm. Se in determinati periodi della vita di un cantautore — o di un gruppo, come in questo caso — viene spontaneo rifugiarsi in un io e te privato, scrivendo brani capaci di toccare più che altro corde e sofferenze individuali, in quest’ultimo progetto i Ministri tornano a concentrarsi su di noi. Difficile non interpretarlo come un allarme: priorità del periodo storico corrente dovrebbe essere il recupero di uno sguardo solidale e collettivo. Mentre cadono i pilastri della nostra società, o si scoprono inesistenti quelli che credevamo la potessero reggere, ci si rende conto che la speranza di una rifondazione può partire solo dal basso. Da noi, per l’appunto.
In questi dieci nuovi brani, i Ministri affrontano tante ombre del nostro tempo. I temi sono svariati e già da un primo ascolto se ne possono individuare alcuni più evidenti di altri. Il focus in Piangere al lavoro è l’inconciliabilità tra vita personale e professionale, mentre in Terre promesse è il grande senso d’impotenza di fronte al genocidio ai danni del popolo palestinese. Se poi in Aurora popolare è la necessità di identificarsi nelle proprie battaglie, in Cattivi i buoni troviamo la disillusione verso chi, in posizioni di potere, dovrebbe darci una direzione. L’urlo generazionale che esplodeva oltre quindici anni fa in Noi fuori oggi si fa di nuovo sentire. Quello stesso noi, oggi, è ancora costretto ai margini della contemporaneità: spettatore della storia senza possibilità di influenzarla. Quello stesso noi, oggi, si sente inerme ed è più che mai diviso, polarizzato da una classe politica che non lo sa rappresentare, ma solo anestetizzare.
Musicalmente parlando, la formazione storica – Davide Autelitano (voce e basso), Federico Dragogna (chitarra e cori) e Michele Esposito (batteria) – ha lavorato per ridurre al minimo indispensabile le sovrastrutture nel tentativo di ritagliare dei live misurati per l’esecuzione in trio. Per il gruppo milanese i concerti dal vivo hanno sempre goduto di una certa sacralità, giustificata dal loro grande potenziale collettivizzante. Ascoltando Aurora popolare può rimanere impresso un diffuso senso di pessimismo e rassegnazione, ma il vero punto d’approdo di questo album si rivela essere la speranza. Quel sole che comunque salirà sopra di noi. E noi che, ancora una volta, cercheremo assieme un modo per andare avanti, per «provarci comunque».

