La resistenza futile ed eroica di chi continua a suonare, nonostante la provincia, nonostante tutto, semplicemente per sentirsi libero
«Alla nostra età invece noi suoniamo punk» cantavano nel 2002 i Derozer, quando molti di noi cominciavano a muovere i primi passi con quella musica a volumi esagerati nelle orecchie e timidamente — ma con la giusta carica — prendevano in mano uno strumento, o iniziavano a gracchiare stonati al microfono la propria rabbia acerba e il proprio piccolo disagio di provincia.
Il sogno comincia. Il divertimento, la saletta che diventa una seconda casa, i mille progetti, i live. Da qui le strade solitamente si dividono: o si “sfonda” — non necessariamente nell’accezione più commerciale — o ci si ferma per un turbinio insanabile di concause. La vita si fa sempre più tortuosa, tra amicizie che si allentano, l’università e lo studio che occupano la mente, o la noia che avanza.
Gli anni passano, superi abbondantemente i 30, ma quella musica è sempre lì, nelle cuffie, a plasmare ogni minuto della giornata. E quel pensiero è sempre più rumoroso nella tua mente: perché non riprovarci?
Purtroppo, però, ricominciare a fare musica da adulti, in provincia, è una forma di resistenza futile e tremenda. Forse anche un’atto di autolesionismo poetico. Ti svegli all’alba per un turno di lavoro che non ti lascia nulla addosso, se non la stanchezza. Magari ne fai due di lavori, o studi, o hai impegni familiari che si accumulano, o devi farti un paio d’ore d’auto per raggiungere i tuoi compagni. Poi, con folle ostinazione, cerchi di ritagliare due ore a settimana per infilarti in una piccola sala prove tanto fumosa e malandata quanto accogliente, con un ampli che gracchia e una batteria che somiglia al mostro di Frankenstein delle percussioni.
E poi c’è tutto il resto. La registrazione di un brano? Un’impresa. I costi, per chi non ha label o sponsor alle spalle, diventano un ostacolo materiale enorme per coloro che godono di un background proletario e di un presente fatto di gloriosa flessibilità lavorativa. Ci si consulta sulle conoscenze personali. Si cerca di capire chi può mettere a disposizione uno studio, e quanto questo può costare.
Alla fine ci si arrangia: si progettano traballanti e complessi sistemi di cablaggio per registrare in saletta. Il tutto cercando di ricordare, nella mente occupata dal lavoro e dagli impegni dell’età adulta, quel riff improvvisato la settimana scorsa — o forse quella prima ancora? —, o come si era deciso di chiudere il pezzo. Rispondere nervosamente: «Tra poco si registra qualcosa» a chi periodicamente ti chiede di ascoltare qualcosa. Anche lo stesso riapprocciarsi a uno strumento dopo 10-15 anni di inattività è un’ impresa se si considera il noto declino fisico e muscolare che inesorabile giunge dopo i 30.
A che pro? I concerti sono sempre meno. Molti locali chiudono, le serate diventano rarissime, lentamente il pubblico si disabitua alla musica dal vivo che non sia un karaoke o un dj-set. Le vecchie facce note della scena locale sono sparite, anch’esse ingerite dal vortice famiglia/casa/lavoro. Salvo le grandi città, la provincia italiana, una volta piena di centri sociali, circoli Arci, festival autogestiti, sembra essersi seduta. E chi suona, anche se non lo fa da anni, lo percepisce.
Eppure ci si prova lo stesso. Si innesca quel perverso meccanismo che ti porta, uscito dal lavoro, in preda a stanchezza e frustrazione, a perdere 2-3 ore in sala prove, anche in piena estate, con una temperatura interna poco al di sotto dei 40°C.
E tutto questo non più per la voglia di “sfondare”, ma per la necessità di continuare. Di suonare nonostante tutto. Perché suonare in provincia, da adulti, non è solo un hobby: è identità, liberazione, sfogo. Un rito settimanale. E se ci si riesce, è salire su un palco davanti a dieci persone e sentirsi vivi.
È un gesto punk, anche se magari il punk non lo suoni nemmeno. Un atto romantico e, a suo modo, politico. È dire: «Io esisto, noi esistiamo, e continuiamo a fare rumore». Anche quando il mondo sembra chiedere solo silenzio, obbedienza e produttività. Perché non sei più un ragazzino, ora devi concentrarti sulle cose serie. Esiste il lavoro, le scadenze burocratiche e altri mille impegni. Non c’è tempo per sognare di calcare le orme dei tuoi gruppi preferiti, sognando per la musica un futuro che probabilmente nemmeno esiste.
Nell’era del mainstream digitale, della musica usa e getta, fare una band in provincia è come scavare a mani nude nel cemento. Ma per molti di noi è anche l’unico modo di restare fedeli a sé stessi. Di suonare quello che si ama, anche se ciò sembra non andare. Perché suonare, da adulti, in provincia, è anche questo: un urlo nel vuoto. E la cosa bella è che ogni tanto qualcuno risponde.