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Terzo giorno: ad Apolide la pioggia è una scusa per ballare

Si chiude, in un crescendo di suggestioni, Apolide Festival 2024. Battezzata dalla pioggia, la terza e ultima giornata del festival di Ivrea propone un vasto e variegato ventaglio di artisti differenti, tra atmosfere suggestive e contaminazioni musicali. Malgrado il clima avverso, il pubblico si dimena: nulla è più forte della voglia di ballare


Nubi grigi e pioggerella: il meteo si conferma una scommessa per il festival di Apolide, giudice impietoso dell’amore per la musica. Dopo il nubifragio di venerdì – che ha costretto l’organizzazione ad annullare ogni attività – e un secondo giorno afoso sotto la minaccia visiva dei fulmini all’orizzonte, questo terzo appuntamento sembra trovare una via di mezzo, battezzando nella pioggia – pur leggera ma costante – un pubblico ormai rassegnato e preparato a ogni evenienza. Tra impermeabili over size e qualche ombrello sparso qua e là, tuttavia, la partecipazione è numerosa e l’atmosfera suggestiva, al cospetto di una selezione musicale tanto eterogenea quanto ammaliante e originale.

Parade78 (aka Main Stage 2.0)

Appena il tempo di rientrare dallo ZAC! – location di ripiego per Devualè, lo spettacolo di Antilia Cabaret che, a causa della pioggia, non ha potuto svolgersi ai Giardini Giusiana – e già le Spalle al Muro inaugurano il palco, richiamando a sé la folla ancora sparsa oltre l’ingresso. Il neo-gruppo di Torino – da poco fuori con il primo EP, Zerkala –, nei 30 minuti che gli sono concessi sembra disegnare un ponte tra diverse sonorità, spaziando dal post-rock all’indie – qualunque cosa voglia dire oggi “indie”, ormai sinonimo di pop –, tra chitarre distorte, tappeti di synth e solismi ubriachi di sax contralto.

Dopo di loro i Bisanzio, senza troppi giri di parole, suonano un cantautorato pop. Ma è quel pop intelligente, non scontato e per nulla banale, che si lascia raccogliere in spensieratezza, scoprendoti a canticchiarne i ritornelli, fischiettandone le melodie, dopo appena pochi giri. Sarà grazie alle tonalità minori che ne trattengono la gioia, o al sornione canto della voce principale, che ravviva le sonorità: la band seduce con la sua malinconia, così leggera e delicata da lasciare a metà strada, indecisi se sorridere o incupirsi.

Gli UTO sono la vera sorpresa di questa terza giornata di Apolide. Unico ospite internazionale, il duo di Parigi strega letteralmente il pubblico dello stage Parade78. Di difficile collocazione, il loro sound è di chiara matrice elettronica, con sintetizzatori modulari e sporadiche chitarre elettriche d’impronta post-punk, ma anche influenzato da diverse contaminazioni: in loro possiamo scorgere il trip-hop dei Massive Attack e dei Portishead, ma anche James Blake, Little Dragon e – perché no – Twin Peaks, che sempre rende l’idea quando si parla di suggestioni. Alla componente sonora – ora eterea e contemplativa, ora incalzante e incisiva – si aggiunge l’impronta eccentrica della cantante Naysa May, che tra danze in stato apparente di trance e versi improvvisi e compulsivi infonde al progetto una personalità tutta sua, a dir poco affascinante.

I Queen of Saba sono chiamati a chiudere lo stage (tutt’altro che) secondario. E lo fanno in grande stile, al cospetto di una folla mai finora così numerosa, difficile da contenere nello spazio angusto che gli è riservato. Sara Santi, voce del duo veneto, presidia il palco senza freni malgrado la clavicola rotta appena pochi giorni prima, spaziando dal rap – pervaso da un flow grintoso e incalzante – ai vocalizzi R’n’B. In linea con le tematiche d’amore e di lotta che contraddistinguono il progetto – e che, come Sara ci tiene a precisare, vanno sempre insieme –, l’artista intervalla ai brani le sue riflessioni, smuovendo le coscienze e invitandole all’azione. E il live si chiude, solennemente, al grido di «Palestina libera!».

Main Stage, tra vecchie glorie e sperimentazioni

Inaugurato da Juma, il Main Stage comincia col botto, nonostante – ahimé – il poco pubblico presente nelle ore diurne. L’artista di Torino – originaria di Genova – meritava sicuramente più presenze sotto al palco. Il progetto solista di Mariam Juma Shabani ha offerto un vasto repertorio di sonorità differenti, che spaziano dal soul al pop, dall’elettronica all’R’n’B, varcando a più riprese anche le soglie del jazz. I testi sono intriganti e le atmosfere variopinte, pur restando nel ventaglio dei colori caldi, delle positive vibrations, per intenderci. Accompagnata da un ricco compendio di basi registrate, tuttavia, sorge spontaneo il desiderio di poterla  ascoltare un giorno con un set up differente, accompagnata da qualche musicista strumentale in più, di cui si avverte un po’ l’assenza.

Con Elasi il pubblico – che comincia ad arrivare – inizia a impastare il fango sotto i piedi, ballando come in preda a un’ipnosi collettiva. Difficile, del resto, rimanere fermi al cospetto dell’elettro-dance dell’artista alessandrina, fiancheggiata da due instancabili ballerini hip-hop ai quali si unisce nelle coreografie. La voce calma affronta poche note, favorendo l’immersione; i bassi vibrano dentro alle ossa. I synth ripercorrono la tradizione aurea di Giorgio Moroder e, più in generale, dell’elettronica anni ’80; qui, però, rivisitata in molte direzioni.

È il turno dei Tre Allegri Ragazzi Morti, che certo non hanno bisogno di presentazioni. Il trio mascherato capitanato da Davide Toffolo – che ieri sera era un quartetto –, ha portato in scena il suo vasto repertorio, cadenzato dai brani dell’ultimo disco, Garage Pordenone, uscito lo scorso aprile in occasione del trentennale della band. Tra impegno politico e contaminazioni musicali, pur sotto il solido dominio del pop e del rock ‘n’ roll, il gruppo ha fatto saltare il suo pubblico dalla prima all’ultima nota, unito in un coro all’unisono sotto le nubi piovose del cielo d’Ivrea.

Agli Ex-Otago l’arduo compito – forse non così arduo, in realtà, per loro – di chiudere in un colpo solo Main Stage, terza giornata e Apolide Festival 2024. Game, set e match, come si dice. Divagazioni a parte, l’ormai veterana band di Genova si divora il palco: i suoni sono perfetti – mi perdonino i tecnici di cui non conosco i nomi, che in questa sede dovrei ringraziare – e Maurizio Carucci, c’è poco da fare, sul palco sembra a casa sua. Difficile restare fermi senza cantare, senza ondeggiare negli impermeabili. Sento qualcuno singhiozzare mentre intona i versi di Per Te: va tutto bene, nella pioggia si può piangere a dirotto. Menzione d’onore per Giorgia Sudati – chitarra solista, da poco parte della formazione live – che di tanto in tanto viene avanti, sul confine della quarta parete, a prendersi la scena che le spetta, dividendo il protagonismo scenico con la voce principale.

Si chiude così, sotto una pioggia che perdura, Apolide Festival 2024. Non certo un’edizione fortunata, per via di un clima avverso – a tratti apocalittico – nei confronti del quale poco si può fare. E quello che si può, Apolide lo ha fatto: incassato il colpo del primo giorno, la festa ha preso vita e la musica non si è più fermata, nemmeno per un secondo. Ivrea, dal canto suo, l’accoglie a braccia aperte, in una location sicuramente ridotta rispetto ai canoni passati, ma altrettanto suggestiva.

 

foto di Natalia Menotti

Alessandro Bianco

Giornalista, musicista e Video Editor, classe 1992. Vivo a Torino, in un mondo d’inchiostro e note musicali, di cinema e poesia: da qui esco poco e poco volentieri, ma tu puoi entrare quando vuoi.

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