L’atavica questione del rapporto tra lingua e società ha segnato e continua a segnare la storia del mondo. Il linguaggio, alcune volte, può essere un mezzo escludente e discriminatorio o, ancora, un fastidioso identificativo di classe. Ma la lingua, soprattutto quella popolare che si parla nelle piazze, nei baretti e tra i bassifondi sparsi nel mondo, può essere anche un forte e potente mezzo di riscatto per gli oppressi e le oppresse di tutto il mondo. Ed è per questo che, a volte, il solo fatto di parlarla, crea un’incredibile connessione tra tre rapper di Belfast e un rapper di Aisone
Se esistesse una classifica delle città più turbolente nella storia europea, Belfast sarebbe sicuramente sul podio. Insieme a Derry, infatti, questa città del Nord Irlanda (o dell’Irlanda del Nord, a seconda dei punti di vista) ha ospitato i troubles, un conflitto settario che, per oltre trent’anni, ha coinvolto la comunità cattolica, repubblicana e, naturalmente, filo-irlandese e quella protestante, lealista e, naturalmente, unionista. Chiunque abbia visto o letto qualcosa sul conflitto nordirlandese, avrà ben chiare le immagini di ragazzi e ragazze con giubbotti di jeans e molotov in mano, murales chilometrici che incitano alla liberazione dei prigionieri politici, paramilitari che passeggiano indossando un passamontagna in mezzo a bambini che vanno a scuola, manine rosse, quadrifogli verdi e tutta quella miriade di strani acronimi che sembrano così simili tra di loro: IRA, INLA, UDA, UDF, UFF, UVF.
Probabilmente, nascere e crescere in un posto dove rischiavi di essere massacrato di botte da polizia e militari solo perché tua madre era convinta dell’esistenza della Madonna o di saltare in aria per aver messo piede nel pub sbagliato ha avuto il pregio di dare a una generazione un argomento di cui parlare e poco importa se questo argomento si è trasformato nelle pagine di un libro o negli accordi di una chitarra scordata.
«There’s nothing for us in Belfast». Non c’è niente per noi, qui, a Belfast cantavano gli Stiff Little Fingers, all’inizio di Alternative Ulster, uno dei loro brani più iconici. Perché davvero, per i giovani che avevano scelto di non partecipare attivamente alla lotta di Liberazione, oltre alle droghe e all’alcol, le cose da fare nella Belfast di fine anni ’70 erano davvero poche. E quindi urlare la tua rabbia contro una società sempre più settaria in cui ogni giorno diventa sempre più facile saltare in aria mentre stai passeggiando per tornare a casa da scuola diventa una necessità. Ed è così che, ad esempio, nasce un disco come Inflammable Material che in soli 16 brani è perfettamente in grado di raccontare come decenni di violenza politica e religiosa abbiano devastato i sogni di una generazione ma, allo stesso tempo, come questa abbia avuto la determinazione per incazzarsi e gridare il proprio odio contro la costante presenza dei militari in ogni strada e delle armi in ogni casa.
Ma questi erano i ruggenti anni ’80.
Quasi quarant’anni dopo, la situazione è completamente diversa. La fine del conflitto, oltre a non aver liberato un bel niente, ha mantenuto povertà e disoccupazione a livelli estremi; dipendenze e alcolismo dilagano per le strade e l’esercito che avrebbe dovuto liberare la tua terra pensa solo a gambizzare i ventenni che vendono qualche grammo di fumo perché troppo cattolici per l’ufficio del lavoro. Quarant’anni dopo si è polverizzata anche quell’utopia sulla liberazione nazionale spingendo la gioventù di Belfast ancora più giù nel tunnel del disagio.
«Troubles? I already have my own troubles». È esattamente in questo contesto che, nel 2017, tre ragazzi di Belfast, Mo Chara, Móglaí Bap e DJ Próvaí, danno vita ai Kneecap, il trio rap che, utilizzando basi elettroniche spesso aggressive, dipinge il disagio e le problematiche dei ragazzi appartenenti alla comunità cattolica nella Belfast post-troubles. La particolarità di questo incredibile gruppo non è però solo quella di avere come simbolo un passamontagna con il tricolore irlandese, di essere stato accusato di apologia di terrorismo, di chiamarsi con un nome che significa gambizzazione affrontando nei propri testi argomenti che probabilmente farebbero gambizzare tutti i membri del gruppo e di esprimere una geniale iconoclastia nei confronti del passato. Uno degli aspetti più particolari dei Kneecap, infatti, è quello di alternare l’utilizzo della lingua gaelica nei propri testi: un modo per preservare l’identità di tutte le comunità oppresse nel mondo.
I rapper Mo Chara (Liam Óg Ó hAnnaidh) e Móglaí Bap (Naoise Ó Cairealláin) portano in dote una competenza linguistica quotidiana e profondamente interiorizzata, maturata tra famiglia e gruppi di amici. A completare il trio, il produttore DJ Próvaí (JJ Ó Dochartaigh), originario di Derry, che prima di dedicarsi a tempo pieno alla musica era un insegnante di lingua irlandese.
In un’intervista a VICE, i Kneecap spiegano come il loro legame con il gaelico sia innanzitutto identitario: avere chiara la propria identità linguistica è il primo passo per costruire la self-confidence necessaria per agire nel mondo. Un’azione, sottolinea Móglaí Bap, che non deve essere per forza violenta, ma che può trovare nuova espressione negli spazi della contro-cultura e nella musica.
È proprio negli squat e nei rave che il gaelico ha ritrovato una vitalità generazionale nuova, come testimoniato in Kneecap, il biopic basato sulla loro storia.
Il loro non è un caso isolato: il fatto che siano diventati così popolari oggi non è solo dimostrazione di talento musicale, ma anche il sintomo di un processo di riappropriazione culturale e identitaria che sta prendendo sempre più piede nel continente, come testimonia un’altra nota punk band irlandese.
E se dirigiamo lo sguardo verso lo stivale, viene subito in mente l’estesa scena hip-hop partenopea, da Clementino a STE, da Liberato a Lina Simons, per citare alcuni nomi.
Meno popolare sul panorama nazionale, ma comunque indicativa, è la riscoperta della lingua occitana anche nei testi rap. Lo testimonia Luca Franco, amico di vecchie scorribande con cui ho condiviso diverse feste e concerti, che oggi lavora come guida escursionistica e scrive testi in langue d’oc. Quando il film dei Kneecap è arrivato (anche) a Cuneo, è stato chiamato a parlarne e noi, a nostra volta, abbiamo scambiato due parole con lui.
Qual è il tuo rapporto con la musica occitana ed estera?
Il mio legame con la cultura occitana nasce in famiglia: i miei genitori provengono entrambi da Aisone, un paese della Valle Stura con poco più di centocinquanta anime. Io sono nato e cresciuto a Cuneo, ma la mia famiglia è quasi interamente rimasta in valle e quindi la maggior parte del mio tempo libero l’ho trascorso lì. Sono cresciuto ascoltando gli adulti parlare occitano tra loro mentre a me si rivolgevano in italiano. Intorno agli undici anni, insieme a un amico con una storia familiare simile, abbiamo chiesto ai nostri parenti di parlarci solo in occitano perché non volevamo più essere solo ascoltatori passivi. Da lì la lingua è diventata una parte centrale della mia identità.
Per quanto riguarda la musica, fin da bambino mi sono appassionato di ciò che ascoltavano i miei genitori — Bob Marley, Pink Floyd, Dire Straits — e parallelamente ai gruppi occitani che giravano in valle, come i Lou Seriol. Crescendo ho approfondito anche la storia dell’Occitania, dalle crociate albigesi alle politiche francesi che hanno tentato di eliminare le lingue minoritarie. Oggi la musica occitana che sento più vicina è quella dagli anni ’70–’80 in poi: penso ai Massilia Sound System e Moussu T, che uniscono folk, reggae e rap. Quanto alla musica estera, ascolto di tutto: rap, drum’n’bass, dub, reggae, rock, punk e un po’ di metal. Passo ore al giorno immerso nella musica.
Cosa ti ha portato a scrivere rap in occitano?
Le prime canzoni le ho scritte attorno ai 25 anni, in italiano. Poi, qualche anno dopo, ho capito che mancava un pezzo fondamentale, cioè la parte di me legata alla lingua occitana. Era impossibile ignorarlo, soprattutto perché l’occitano è una lingua che rischia di scomparire. Così ho scelto di scrivere anche in occitano: per me, per la mia comunità e per lasciare qualcosa che contribuisca almeno a preservarne la memoria.
Cosa ti ispira quando scrivi?
Tutto, chi lavora con le parole può trovare spunti ovunque. Non ho temi fissi: ho scritto sulla lingua occitana, su eventi storici, ho inventato storie, ho parlato di festa, amicizia, musica. Qualsiasi cosa può diventare un seme per un testo.
Nel film dei Kneecap, che nesso hai trovato con la tua esperienza?
La connessione più immediata è ovviamente la lingua: loro il gaelico, io l’occitano. Anche loro fanno rap nella propria lingua madre per preservarla e rivendicarla. Ciò che ci distingue è il contesto: i Kneecap vengono da West Belfast, da una realtà segnata da violenze, discriminazioni politiche, religiose e da una storia di repressione. Le loro canzoni sono intrise di protesta e provocazione. La mia esperienza è diversa: vengo da un territorio tranquillo e non ho vissuto quel tipo di conflitto. Ma condivido l’urgenza di dare voce a una lingua minoritaria che ha subito pressioni e tentativi di cancellazione. In questo, mi sento vicino a loro.

