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C2C Festival: le introspezioni sonore del venerdì

Dal lirismo elettronico di Emanuele Wiltsch Barberio ai climax emotivi di Blood Orange, passando per Nicholas Jaar & Ali Sethi, Iosonouncane e Daniela Pes, Saya Gray e i Titanic. La seconda serata del C2C Festival 2025 al Lingotto Fiere di Torino è un inno all’introspezione e alla sperimentazione sonora


31 ottobre 2025, secondo appuntamento con il C2C Festival. L’attesa di uno tra gli eventi musicali più attesi nella città di Torino – e non solo, come dimostra la varietà di idiomi che è possibile scorgere tra il pubblico del Lingotto Fiere – era palpabile nell’aria in queste ultime settimane. I magazine italiani fioccavano di articoli e contenuti preparativi all’evento, suggerendo gli artisti più interessanti da seguire. Del resto la serata di ieri, così come quella di oggi, era sold out già da diversi mesi: difficile resistere alla proposta di una line up così articolata che, se pure eterogenea nelle atmosfere, prometteva una certa coerenza nello spirito di introspezione a cui ogni concerto sembrava appellarsi, coinvolgendo il pubblico in una meditazione collettiva. Certo, con qualche eccezione, ma inevitabile per un evento di questa portata.

La formula è sempre la stessa: due padiglioni, casa base rispettivamente dello Stone Island Stage e del Main Stage: il primo dedicato alla musica elettronica intesa in senso più stretto, un vero e proprio soundsystem circondato da monoliti di casse disposte a 360 gradi; il secondo, come suggerisce il nome, destinato agli artisti più di spicco, esponenti di rilievo nel panorama contemporaneo di un’avanguardia musicale intrisa di contaminazioni sonore, elettroniche e non. Al centro, due lunghi corridoi puntellati di luci bianche contribuiscono a perpetuare l’atmosfera onirica del festival anche durante i momenti di transizione, nelle migrazioni di massa tra un palco e l’altro.

La stessa formula degli altri anni, lo abbiamo detto, ma anche la stessa scenografia, le medesime istallazioni, immerse nel consueto impasto di buio, fumo e luci bianche: sicuramente suggestivo e ormai caratteristico, ma da un evento di questa portata, forse, ci si aspetterebbe perlomeno qualche novità tra un’edizione e l’altra, se non proprio dei colpi di scena. Detto questo, ciò che più conta è la proposta musicale e con quella si va quasi sempre sul sicuro. I nomi erano molti e molto interessanti, ma per brevità, affinità (di chi scrive) e mancanza di dono dell’ubiquità – perché, lo ricordiamo, i due stage suonavano in contemporanea –, in questa sede ci concentreremo sui concerti del Main Stage.

E se di introspezione abbiamo parlato, non è certo a sproposito. Ad aprire il Main Stage del venerdì – proprio mentre allo Stone Island stanno suonando i Tresca Y Tigre & Lechuga Zafiro, un nuovo, fresco e interessante progetto al suo debutto nazionale – è Emanuele Wiltsch Barberio, tessitore di suoni lenti e dilatati, morbidi come ricami impressi su un arazzo di sintetizzatori distesi, aeriformi. Un incipit, quello di Barberio, che col senno di poi assolve il ruolo di un perfetto preludio alle suggestioni che verranno, invitando un pubblico ahimé ancora scarno – allo scoccare delle 17:30 – a rallentare il battito cardiaco, chiudere gli occhi e fare lunghi respiri, per poi prepararsi a dispiegare le ali.

Ancora il pubblico è poco e disperso nelle vaste aree del Lingotto Fiere quando sale sul palco la prima formazione strumentale della serata, i Titanic. Fresco d’uscita del suo ultimo album – Hagen, pubblicato l’1 settembre per l’etichetta Unheard Of Hope –, il duo formato dal chitarrista venezuelano Héctor Tosta (che firma il progetto con lo pseudonimo di I. la Católica) e la violoncellista guatemalteca Mabe Fratti porta in scena un complesso intreccio di generi e suggestioni, tanto difficile da collocare quanto affascinante da contemplare. Tra suoni delicati, spazi di silenzio e distorsioni travolgenti, i Titanic alternano con sapienza il delicato approccio strumentale della musica classica all’irriverenza del post punk, creando infine qualcosa di nuovo, originale, che fa del gioco costante tra tensione e distensione l’elemento cardine della propria cifra stilistica. Lirico e solenne, il violoncello di Fratti accompagna la voce vellutata della musicista, mentre alla chitarra di Hector spetta il ruolo di distorcere, sporcare, decostruire. Gibrán Andrade alla batteria e Jarrett Gilgore al sax tenore completano la formazione di quello che, personalmente, rientra forse tra i progetti più interessanti della serata.

Il primo sold out del C2C Festival 2025 comincia a manifestarsi in tutta la sua moltitudine quando a salire sul palco è Nicholas Jaar – ormai di casa a C2C e nella città di Torino, in cui ha vissuto tra il 2020 e l’anno successivo – accompagnato da Ali Sethi, cantante di origini pakistane e acclamato romanziere. Circondato da tastiere, un PC e un pianoforte a coda, Jaar si offre al servizio del collega edulcorando l’atmosfera con tappeti di synth e dissonanze percussive picchiate sui tasti dei pianoforti, il quale in tutta risposta seduce e incanta il suo pubblico intonando virtuosismi intrisi di sacralità, tra scale minori armoniche e frigie di dominante. Pochi i crescendo e i picchi emotivi, ancor più rari gli elementi ritmici: la sensazione è quella di un limbo sonoro costante, come un mantra, un’immersione sensoriale. Il pubblico assiste incantato da ogni angolo del vasto padiglione, assorto: la testa ondeggia lentamente e gli occhi sono chiusi, sognanti sopra i rivoli di sangue finto di chi si è dipinto il volto per traghettare un po’ di halloween anche qui, in questa dimensione parallela apparentemente distaccata dal mondo che sembra essere il C2C Festival.

È poi il tempo di Iosonouncane e Daniela Pes, una collaborazione che ha fatto subito drizzare le orecchie a chi, come me, nel corso degli anni ne ha amato le rispettive produzioni soliste. Ieri al suo debutto per C2C Festival, il duo aveva già collaborato in occasione dell’album solista Spira di Daniela Pes – che le è valso il Premio Tenco nel 2023 –, di cui Iosonouncane ha curato la produzione. È però la prima volta che il duo si esibisce insieme e le aspettative erano altissime: in parte totalmente appagate da uno spettacolo sonoro e visivo estremamente coinvolgente, curato in modo maniacale in ogni piccolo dettaglio sonoro; d’altra parte, però, al termine del live è inevitabile provare un po’ di rammarico per la durata ridotta di un’esibizione tanto attesa, terminata dopo appena quaranta minuti. Tuttavia, per quanto breve, il concerto si potrebbe tradurre in una vera e propria esperienza immersiva, d’impatto, in costante bilico tra distensioni e distorsioni sonore, generate live dall’input di voci e flauti di pan. Il tutto, se pur occasionalmente, coronato qua e là dalle splendide voci dei suoi protagonisti, che quando unite assieme rivelano una potenza espressiva a dir poco ammaliante.

Un improvviso cambio di rotta nella line up della serata arriva poi con Saya Gray. Travolgente e perfettamente a suo agio sopra il palcoscenico, l’artista giappo-canadese – uscita a febbraio con il suo secondo e acclamato album Saya – è difficile da definire, il che si potrebbe interpretare come sinonimo di originalità. Per dare un’idea, però, è inevitabile provarci: dal pop al folk, dall’alternative rock al soft jazz, Saya sembra evadere continuamente i confini di genere, pur consegnando al suo pubblico un’atmosfera piuttosto coesa e coerente, melodicamente orecchiabile, ma soprattutto densa di energia. Saltando da un angolo all’altro del palcoscenico con il suo outfit total-peluche e la sua chitarra multimanico, infatti, la polistrumentista travolge la sala tanto nei momenti più incisivi, scanditi dalla batteria dirompente di John Mavro, quanto in quelli più delicati e immersivi, ammalianti grazie a un’intesa armonica di rara bellezza tra la voce delicata di Saya e la chitarra di Lucian Gray.

Prima della chiusura di serata affidata a Dj Python, chiamato a ridestare il mondo del C2C Festival dai propri viaggi interiori per riconsegnarlo all’alba con le gambe stanche e le maglie fradice di sudore, è infine il turno di Blood Orange, progetto artistico del musicista, compositore e produttore Devonté Hynes. Da alcuni paragonato a Prince per le sue suggestioni musicali in costante bilico tra R&B, pop, jazz, elettronica e musica orchestrale, il polistrumentista inglese incanta e seduce con la sua voce eterea e il suo virtuosismo trasversale – mai eccessivo o fine a se stesso – in un vasto assortimento di strumenti musicali: dalla chitarra al basso, dal pianoforte ai synth, passando per il violoncello, che ha regalato forse i momenti più toccanti dell’esibizione.

Un epilogo, quello di Blood Orange, incantevole e commovente – come dimostrano le lacrime sul volto di alcuni dei presenti – che chiude alla perfezione il complesso itinerario emotivo che ha sedotto il pubblico del festival in questo primo giorno di live al Lingotto Fiere, votato all’introspezione e alla contemplazione sonora. Un rito collettivo e partecipato, che ha permesso di dimenticare l’ormai consueta “truffa legalizzata” del sistema dei token elettronici impiegati per le consumazioni all’interno del festival, apparentemente studiati ad hoc per storcere più soldi possibili ai visitatori, tra cauzioni a fondo perduto, prezzi esorbitanti e ricariche a multipli di dieci euro. Questa, forse, rimane l’unica perenne nota stonata di un evento imponente e sempre interessante nella sua proposta musicale.

 

foto di Luca Morlino

Alessandro Bianco

Giornalista, musicista e Video Editor, classe 1992. Vivo a Torino, in un mondo d’inchiostro e note musicali, di cinema e poesia: da qui esco poco e poco volentieri, ma tu puoi entrare quando vuoi.

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