Sedici anni dopo l’esordio con Crazy Heart, Scott Cooper torna a raccontare la musica con un’opera che sa distinguersi in mezzo al marasma di film biografici usciti negli ultimi anni. Senza molta fiction – grazie anche alla stretta collaborazione con lo stesso Bruce Springsteen – la storia ci porta lontano dalle luci della ribalta, per conoscere veramente il Boss attraverso il processo creativo del suo album più intimo: Nebraska
È appena finito il The River Tour (1981) e la Columbia Records vuole tenere Bruce Springsteen (Jeremy Allen White) sulla cresta dell’onda con la registrazione immediata di un nuovo album. Il cantante, però, ha bisogno di tranquillità e si trasferisce a Colts Neck, New Jersey, zona in cui è cresciuto. Qui, ispirato da Badlands (La rabbia giovane) di Terrence Malick e i racconti di Flannery O’Connor, inizia a scrivere nuove canzoni e incide le demo con l’aiuto del suo tecnico delle chitarre Mike Batlan (Paul Walter Hauser). La scarsa qualità audio del suo TEAC 144 non lo preoccupa: vuole solo catturare le proprie idee.
Nel frattempo conosce Faye (Odessa Young), madre single e cameriera, e la conquista portandola al suo amato Asbury Park di notte. La frequentazione va avanti e Bruce lega anche con la figlia di lei, ma il peso emotivo del passato del cantante lo porta a isolarsi, trascinandolo in depressione. Il rapporto difficile con il padre (Stephen Graham) alcolizzato, spesso violento e dalla fragile salute mentale, ritorna nei ricordi in bianco e nero.
Il produttore Jon Landau (Jeremy Strong) è per Bruce una presenza fondamentale, empatica e comprensiva, che gli dà completa fiducia e appoggio. Durante le sessioni di registrazione dell’album con la band, niente convince Springsteen. Irremovibile, vuole mantenere l’aura delle demo registrate nella sua camera da letto. Il Boss detta le condizioni, che vengono esaudite anche grazie alla determinazione di Jon: utilizzo delle registrazioni originali senza la band, niente singoli, niente tour, niente stampa. Il risultato è un album intimo e cupo, personale e umano come nessun altro. Springsteen torna a suonare dal vivo e decide poi di trasferirsi a Los Angeles, ma il continuo e inevitabile scontro coi fantasmi dell’infanzia lo porta infine a cercare aiuto.
Ultimo tra i numerosi biopic musicali usciti in anni recenti, il film si distingue per il taglio della storia, che risulta estremamente efficace a livello cinematografico. La pellicola è basata sul libro Deliver Me from Nowhere: The Making of Bruce Springsteen’s Nebraska di Warren Zanes, ispirato a sua volta alle memorie di Springsteen del 2016. La scelta di raccontare una parte molto specifica della vita del Boss rende la sceneggiatura più interessante e apre alla possibilità di uno o più sequel – idea già messa in tavola dal regista Scott Cooper –. In più, il racconto di un periodo come quello della scrittura e registrazione di Nebraska ci allontana ulteriormente dalla grandiosa – per non dire eccessiva – celebrazione delle hit e dei live che riempie altri biopic come Bohemian Rhapsody.
Se è vero che il lungometraggio si libera di alcuni cliché, altri sono decisamente più duri a morire, come i ricordi tormentati in bianco e nero e l’invenzione di un dramma amoroso senza lieto fine. Tuttavia, Cooper riesce a mostrare l’altra faccia della medaglia di una vera e propria icona americana con uno sguardo curato e attento. La cinepresa è una presenza discreta ma costante, che può sembrare eccessivamente didascalica nelle scene dove Landau è a casa con la moglie, il cui unico contributo al film è annuire alle affermazioni del marito. La necessità di questi monologhi però non risiede nello spiegare allo spettatore l’emotività di Springsteen, ma nel mostrare la vera comprensione dei suoi pensieri da parte del produttore. Landau è una spalla indispensabile in questa lotta con il dolore familiare che Bruce canalizza nella creazione di un capolavoro: un album dall’anima folk che racconta storie di personaggi ai margini, a cui Springsteen ha dato voce sin dall’esordio Greetings from Asbury Park, NJ (1973).
Doveva essere proprio quest’ultimo l’album che lo avrebbe presentato come il nuovo cantante folk del momento, ma l’energia del suo rock‘n’roll lascerà completo spazio alla chitarra acustica solamente in Nebraska. In questa parentesi musicale carica di sofferenza, Bruce Springsteen inserisce visioni d’infanzia e cronaca nera parlando in prima persona, come se la famosa cassetta senza custodia fosse una capsula per il proprio inconscio, tormentato dai ricordi e catturato dalla storia di Starkweather. Il Boss non cerca eroi americani, così come non cerca di esserlo: nella scena finale, in cui si trova finalmente in terapia, lo vediamo in tutta la sua vulnerabilità.
All’uscita di Springsteen – Liberami dal nulla è seguita immediatamente la pubblicazione da parte di Sony Music del cofanetto Nebraska ‘82: Expanded edition, contenente gli outtakes, le versioni Electric Nebraska registrate con la E Street Band e la prima esecuzione integrale dal vivo dell’album (Count Basie Theatre, Red Bank, NJ). Ascolti obbligatori sono la traccia di apertura, la demo version di Born in the U.S.A., in tutta la sua inquietudine originale, e la delicata Losin’ Kind dagli outtakes.

