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Una lunghissima ombra: un film sulla perdita e la rinascita

svg23 October 2025AlbumRecensioniMAGRÌTTE

Il nuovo album di Andrea Laszlo De Simone – pubblicato per 42 Records – è un un lungometraggio sonoro di un’ora, in cui si viaggia lungo tutte le fasi che trasformano la perdita in evoluzione. Un invito che sfida l’atrofia in cui versa l’attenzione pubblica, in una realtà sempre più frenetica che fatica a mettersi in dubbio: prendersi un’ora e immergersi in quest’opera è un esercizio di cura


Parlare di un cantautore sui generis come Andrea Laszlo De Simone è un’impresa ardua, anche in relazione alla sua scelta – fondata su esigenze personali e familiari – di un parziale ritiro sociale in termini di contatto con giornalismo e seguito. Questo approccio alla musica e alla vita pubblica può essere spunto per un dibattito interno e un’onesta autocritica da parte del cosiddetto music business, ma riesce al contempo nel suo intento di focalizzare l’attenzione sull’opera, spogliandola da ogni rumore di contorno. Per chi ama immergersi nella musica e ha apprezzato quella di Laszlo – senza necessità di ulteriori coordinate biografiche – Una lunghissima ombra è l’occasione per perdersi in un viaggio sonoro ed emotivo, assemblato con uno spessore artistico sempre più raro. Un racconto stratificato ma universale, che invita all’empatia, alla commozione e al movimento: nutrire i dubbi e puntare all’evoluzione.

La musica di Laszlo, in questo lavoro, è una somma di sé stessa: sinfonica e cantautorale – con momenti di sperimentazione psichedelica e hyperpop –; raffinata e nostalgica, disseminata di rimandi più o meno volontari alla grande canzone italiana e alle colonne sonore di un altro secolo. Un lungometraggio di un’ora senza fotogrammi, votato alla libera interpretazione individuale. Non essendo un disco autobiografico, Una lunghissima ombra non racconta l’autore, ma lo attraversa: lui stesso ha dichiarato che l’album è una rappresentazione dei pensieri intrusivi ma, a questa definizione introduttiva, si può affiancare una lettura più profonda e lineare, coerente con le fasi del lutto. Non necessariamente il lutto inteso come morte, ma come esperienza universale di perdita. La perdita di un amore, di un’identità, di una versione di sé. La parabola emotiva della trasformazione. Tutto ruota attorno al concetto di luce e ombra: dove c’è l’una c’è necessariamente l’altra e, man mano che la fonte luminosa si ritira, l’ombra è destinata ad allungarsi vertiginosamente. Quando poi la luce scomparirà del tutto, resterà il buio. Ma il buio – come la perdita – non è un punto d’arrivo, ma una soglia da varcare.

L’interpretazione che segue è quella che ha guidato il mio viaggio: una lettura per atti cinematografici, che delineano le fasi dell’elaborazione del protagonista. Perdita, accettazione e trasformazione.

Il primo atto si apre con Il buio: una marcia tesa che non esplode mai, in cui sembra di percepire le urla di terrore per lo shock di una perdita preannunciata. Segue Ricordo tattile, lettera indirizzata forse proprio al buio dell’incipit, dove il protagonista – vestito di archi e fiati – chiede più tempo per poter ricordare meglio quando arriverà il futuro. Un elogio alla memoria carnale, ai sensi come àncora di salvezza: «Dita chiedono che sia lungo il giorno | Per ricordarti bene». Con Neon, il suono si distorce in fruscii e sfrigolii intermittenti di una luce artificiale. L’ingresso nel sogno, nel territorio instabile dell’inconscio durante La notte: una favola pianistica anni ’50, dove la dolcezza maschera la paura. Il sogno è colorato e luminoso, ma la frequenza oscura si percepisce sotto la superficie: «Se c’è qualcuno che non ha paura | Io prego mi soccorra»Colpevole segna il risveglio, quando il giorno mette in luce ciò che era nascosto e la rabbia lascia spazio al rimorso. Con un delicato arpeggio di chitarra, il protagonista si avvia verso il percorso di accettazione, che passa per il conflitto con la propria colpevolezza: «Come brucia la nostra coda di paglia | E la presunta innocenza | Traballa al lume di fiamma».

Il primo atto si chiude con l’inizio della consapevolezza: la perdita è avvenuta, il buio è entrato, e ora bisogna imparare a vederci attraverso. Quando riprende il respiro della traccia precedente e ne diventa la risposta: il protagonista riconosce la propria fragilità, riflessa nell’altro, in un moto di amore e incomprensione. «Quando tu mi stringi sei in grado di ferirmi | Ed io non so spiegarlo e tu non puoi capirmi». In Aspetterò, il conflitto lascia spazio alla resa: il caos e la confusione diventano accettazione. Il tempo, prima nemico, diventa alleato: «Ma dovrò vivere, nel mondo resterò | Finché avrò tempo, tutto il tempo aspetterò». E poi è il turno di Per te – una commovente dedica paterna – in cui ci viene presentata una nuova nascita, metaforica oltre che concreta: la speranza, l’apertura. L’amore non è più bisogno o colpa, ma dono: «Per te che farei? | Farei tutto io, ecco cosa farei | Per te lo farei | Per te lo farò | Non lo sai, ma io lo so». Un momento migliore strizza l’occhio al riff di archi della celeberrima Bitter Sweet Symphony, dove il protagonista si toglie le maschere e ammette tutto ciò che non ha mai ammesso. È la sua ultima fase di accettazione, prima di potersi tuffare in un presente mutato in cui sogna d’essere un uomo migliore; per farlo, dovrà ricavarsi il proprio spazio eliminando il vuoto e le colpe: «Nessuno, nessuno | Ha mai avuto un momento migliore». Con Diffrazione si apre un varco: la luce rientra, ma frammentata. La trasformazione è iniziata.

Pienamente è la presa di coscienza sul rischio vitale di ogni essere vivente: il protagonista sceglie di vivere, anche a costo del dolore, pur di togliersi da una stasi tossica. La melodia richiama alla mente una canzone che, allo stesso modo, invita al moto: Balla Linda di Lucio Battisti. «E vivo pienamente in preda alle emozioni | E non ho più paura, ormai non temo niente | Chi vive, morirà». In Planando sui raggi del sole, la paura di cadere convive con il bisogno di volare. Il bridge – con la voce grave che ricorda quella fuoricampo nei film – e l’arrangiamento jazz suonano come un consiglio paterno: «Volare costa caro | E al primo passo falso | Cadremo giù di certo | Ma che colpa ne hai tu? | Soffia sempre di più». Traghettata dalla strumentale Spiragli, la nostalgia che accompagna la consapevolezza si esprime in Quello che ero una volta. Due strofe senza ritornello, come un’eco della colpa che riaffiora e che si può esorcizzare soltanto ascoltandola senza scappare. «Quello che ero una volta | Quand’ero un uomo migliore». Rifrazione riconduce alla luce con un suono limpido, quasi spirituale, anticipando la traccia più elettronica e sperimentale: Non è reale. Qui, la realtà delle cose viene messa in dubbio: forse tutti quei pensieri intrusivi, quel rimuginio, non sono reali e mettere un confine, seppur non delineato, può aiutare a distaccarsi. Proprio in quella sfocatura il dolore perde presa: «Cosa ci illumina | Cosa ci spinge | Cosa ci domina | Non è reale». Il film musicale si conclude con Una lunghissima ombra: un’unica strofa, riassuntiva dell’intera opera omonima. La trasformazione è avvenuta e l’orchestrazione composta e cadenzata ne amplifica l’integrità. Il protagonista guarda il tramonto in una lenta dissolvenza, riconoscendo la propria ombra come misura del tempo e della crescita: «Io mi accorgo di esser diventato grande | Vedo solo facce stanche | E quando viene sera | Proietto una lunghissima ombra».

Una lunghissima ombra è una meditazione sulla perdita e sulla trasformazione, dove ogni brano rappresenta un passo avanti (o indietro) nel processo di elaborazione: lasciar morire ciò che si era per fare spazio a ciò che si diventa. Andrea Laszlo De Simone non propone risposte, ma regala un linguaggio sonoro per affrontare le domande. E – come in ogni opera autentica – il senso non sta nella destinazione, ma nel cammino individuale di chiunque si prenderà del tempo per immergercisi: con la certezza che l’ombra ci accompagnerà, finché saremo in grado di esporci alla luce.

Mattia Macrì

Creativo. Cant-Autore. Storyteller. Neurodivergente. Mi esprimo in musica da quando l'ho scoperta, ma da prima scrivo storie. Amo qualsiasi tipologia di performance artistica e i meccanismi della mente umana. Il motivo per il quale scelsi di studiare Chimica Industriale spesso ancora mi sfugge.

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