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Shame al Monitor: nuovo nome, vecchie certezze

Il primo Monitor è già una promessa mantenuta, con una serata di scoperte e riconferme. Gli Shame tornano a Spazio 211 come dei vulcani, portando un’energia e un’attitudine che non possono lasciare indifferenti. The Cherry Pies, Rich(ard) Dawson e Luvcat completano la line-up con personalità e carattere, a riprova del fatto che non servono grandi nomi per impressionare


Torino, Spazio 211. La strada per arrivare la conosciamo tutti, così come l’odore di quel prato e il suono di quel palco, racchiuso tra mura graffitate che mai quanto oggi significano casa. Nel cuore del quartiere Barriera di Milano, il parterre si riempie di facce nuove e conosciute, divise tra fan del genere – mai viste così tante magliette dei Fontaines D.C. a un concerto senza Fontaines D.C. – e pubblico all’avventura, perché di questa direzione artistica, generalmente, ci si fida.

Monitor sarà un «Two Days Festival» easter egg inserito sulla locandina e notato ormai da tutti gli aficionados del vecchio Todays –, curato da Gianluca Gozzi e Gabriele Sinatra, con l’idea chiara che «indietro non si torna» – come spiegato a La Repubblica. Un progetto con lo sguardo proiettato sul mondo – MONdo, ITalia, TORino – che punta su artisti emergenti e internazionali, portando sul palco tre band in esclusiva nazionale e sei alla prima esibizione a Torino. L’impronta di Monitor è netta: nessun nome di richiamo facile, ma una scelta coerente e coraggiosa, tra sonorità impuramente attuali che vanno dal cantautorato alla sperimentazione.

A rompere il ghiaccio sono i The Cherry Pies, quartetto torinese che suona con una presenza scenica da band internazionale. Stefano Isaia dà corpo ai testi con intensità: armonizzati magistralmente da Riccardo Salvini al basso e Veronica Zucca alle tastiere, sostenuti da groove trascinanti di Nicola Lotta alla batteria. La band attacca il palco con grinta e professionismo, con un sound che mescola garage punk e ballad americana – un crossover che su vinile, pure registrato coi mezzi del lockdown, suona ancora fresco –. Il prato si anima e si riempie, mentre il sole inizia a scendere.

Rich(ard) Dawson – cantautore folk d’avanguardia da Newcastle – squarcia il silenzio con un lungo intro a cappella, che entra nell’anima come un rito ancestrale, preludio di un racconto arcaico. Da solo, seduto su una sedia, ha l’aria di un cantastorie moderno, intento a raccontarci un romanzo in musica, dove note e parole si intrecciano naturalmente e la sua chitarra risponde come un interlocutore vivo. Quest’ultima, con un suono scolpito ad arte nell’elettricità, vive come un prolungamento del suo corpo, della sua volontà e della sua voce, che sembra avere la stessa estensione dello strumento. Questo rapporto quasi simbiotico è la chiave per una performance mozzafiato. Qualcuno si commuove e lascia scendere una lacrima, mentre Dawson passa da melodie dolci e gentili ad arpeggi crudi e stranianti, con la carica di una cavalcata epica e un’attitudine da personaggio fantasy. L’ultimo album End of the Middle, uscito per Domino, trasuda narrazione acustica e moderna. E dal vivo ne si coglie ogni sfumatura.

Nel frattempo, l’ombra conquista metri nel parterre, fino ad arrivare sul palco. Quando il sole tramonta, è il momento di Luvcat. Alter ego di Sophie Morgan, la cantautrice di Liverpool cresce ascoltando Sinatra e i The Cure, in una dimensione quasi barocca. Attorno a lei, una band d’eccezione che dipinge atmosfere gotiche e teatrali. Il suo pop scuro e romantico si costruisce sui contrasti, tra eleganza decadente e sussurri d’intimità noir. Brani come Matador, He’s My ManDinner @ Brasserie Zédel sono piccoli racconti carichi di tensione: melodie avvolgenti e liriche assassine, sospese tra fiaba e sensualità. Dal vivo, Luvcat è una presenza magnetica, immersa nel suo mondo tra luci soffuse, rossetti scuri e ombre di burlesque. Le prime file cantano ogni canzone a memoria e rispondono urlando a ogni mossa di Sophie, che le tiene in mano come una vera teen-idol. Gran finale con Vicious Delicious, ultimo singolo uscito due giorni fa, che anticipa il suo album di debutto annunciato per l’autunno.

Nell’attesa, il bar è preso d’assalto grazie a prezzi popolari, a cui mi sento di fare un plauso: ultimamente è cosa rara non spendere un rene per mangiare e bere ai festival.

Finalmente è il momento degli Shame, la compagine capitanata da Charlie Steen sale sul palco con un’entrata trionfale, sulle note di Baba O’Riley dei The Who. La scaletta parte con Tasteless, ruvida e immediata, perfetta per scatenare la platea. Il quintetto londinese, continua con tensione e ritmi impetuosi. Josh Finerty si aggroviglia nei cavi, gli cade la tracolla, si lancia per terra, fa capriole e corre all’impazzata su tutto il palco mentre un roadie passa i suoi 10 minuti più in sbatta di sempre per cercare di tenergli il basso addosso e il cavo attaccato all’amplificatore. Tutto diventa scatto, momento, energia viscerale.  Le chitarre sono affilate come coltelli, Charlie Forbes picchia come un fabbro nelle retrovie: la miccia è accesa.

Charlie urla, salta, gesticola come un rivoluzionario davanti alla sua gente, si toglie la giacca e rimane a petto nudo, con bretelle e collarino – mi sembra di intravedere l’ascesa di un sex symbol alla Alex Turner, anche se qui il contesto sta tra ironia, punk e spettacolo. Si capisce che sotto quel sudore c’è ancora la fame di strada. Poi arriva Adderall, cliffhanger post-punk che placa il pogo costante per regalarci un attimo di sing along che si alza sopra il cielo terso, con una luna spettacolare. Poi, la fiamma si alimenta nuovamente con Snow Day. L’energia non si placa, è contagiosa e necessaria, per scaldare la notte torinese e il cuore di chi non smette un attimo di muoversi là davanti. Dopo One Rizla, il crowd surfing si riprende Charlie, insieme ad altri fan che fanno la lotta per toccarlo. Si chiude il live con Cutthroat, ultimo singolo della band, che sembra raggiungere l’apice del volume e della cattiveria (in senso buono, ovviamente).

Monitor incarna uno spirito reale: niente fronzoli, niente claim altisonanti, solo musica pensata per chi la ama veramente. Spazio 211 dimostra che Torino ha bisogno di spazi che continuino a respirare, a produrre senso, che sappiano andare “fuori giri”, come recita il suo manifesto. Monitor, al suo primo giorno, è già una promessa di un futuro vivo, aperto, non codificato. Si torna a casa con le orecchie che fischiano e l’anima più leggera, per essere nuovamente parte di un cambiamento musicale importantissimo e necessario, per una Torino che non si arrende ai tempi.

 

foto di Giorgia Mirabile

Primo Polzifari

Vivo dentro la musica da sempre e cerco di descrivere al meglio ciò che mi emoziona.

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