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Il concerto de I Cani è un atto liberatorio

A Venaria, in una gelida serata di fine novembre, il Teatro della Concordia si infiamma per la prima delle due serate sold out del tanto atteso Post Mortem tour de I Cani. Tra poghi, lacrime, ritornelli e skit intonati all’unisono, la (non) band romana capitanata da Niccolò Contessa si esibisce in un concerto che sa di un potente e necessario atto liberatorio


È quasi mezzanotte e il telefono segna 2 gradi. Numerosi gruppi di ragazzi e ragazze in T-shirt con facce soddisfatte, felici, sognanti ma al contempo stanche provano a decidere con voce rauca dove andare a mangiare un panino o dove comprare una tanto desiderata bottiglietta d’acqua. Il sudore è parte integrante di tutti i volti: dopo l’acqua, la doccia calda è chiaramente il desiderio più agognato. Poco distante c’è chi è alle prese con una fila infinita per il merchandising, per accaparrarsi un cimelio del quale ci si potrà vantare per chissà quanti anni.

È questa la post-apocalittica situazione al Teatro della Concordia di Venaria al termine dell’attesissima prima data del Post Mortem tour de I Cani. Niccolò Contessa, mente del progetto artistico, è una figura mitologica della scena indie degli anni ’10. I Cani è un progetto musicale che è riuscito a descrivere generazioni di post-adolescenti universitari alle prese con il mondo del lavoro. Contessa per primo è riuscito a creare un legame tra la musica underground e il mainstream lasciando poi spazio a fenomeni come Calcutta, il cui album d’esordio, Mainstream, festeggia dieci anni proprio in concomitanza del concerto.

All’improvviso, senza nessuna pubblicizzazione, dopo nove lunghissimi anni di silenzio, in una mattina di aprile, Contessa riapre uno stargate che sembrava essere chiuso per sempre pubblicando Post mortem, un quarto – e fa ancora strano dirlo – album di inediti. Da quel momento, tutti i fan hanno atteso come il giorno dell’apocalisse il tour che avrebbe toccato i migliori club di tutta Italia per una ventina di date tutte sold out.

Il concerto è aperto da Giulia Impache, artista torinese che presenta al pubblico il suo ultimo album In:titolo. Cantautrice elettronica dai suoni molto raffinati ed eleganti, Giulia culla i presenti con la sua voce eterea e le sue canzoni soavi, dimostrando di meritare un pubblico molto più ampio di quello attuale.

Alla fine del concerto di apertura, la gente continua a entrare in trepidante attesa. Il pubblico è molto eterogeneo, c’è chi ascolta I Cani fin dagli esordi e chi invece si è avvicinato ora per la prima volta, dopo nove anni di interminabile silenzio. Le prime file sono prese d’assalto da quest’ultima categoria mentre i simil-quarantenni sono nelle retrovie. Nel 2025, la parola hipster è probabilmente anacronistica, ma è quella che meglio descrive il pubblico presente.

Con dieci minuti di ritardo, ecco che Contessa si presenta sul palco, senza cappello e occhiali. È magrissimo, a tratti ingobbito con una T-shirt scura. Ad accompagnarlo sul palco c’è la band storica: Valerio Bulla al basso, Simone Ciarocchi alla batteria, Francesco Bellani, alle tastiere e ai synth, Andrea Suriani – re mida del mastering – alla tastiera mentre la new entry Marcello Newmann, con il quale Niccolò condivide anche un altro progetto, Musicoterapia per Adulti, è alla chitarra e allo shaker. La scenografia è molto semplice con un ledwall alle spalle della band. Le luci sono volutamente molto scure impedendo di vedere in maniera nitida i volti dei componenti della band.

Si inizia con la trilogia di canzoni che apre Post mortem: io, buco nero, colpo di tosse quasi a voler saggiare l’atmosfera e far prendere coscienza al pubblico di cosa stia realmente accadendo. Sul palco, Contessa alterna chitarra e tastiera ondeggiando la testa in maniera ossessiva al limite della compulsività.

La scaletta è perfetta sia per scelta delle canzoni sia per la loro disposizione, alternando gli storici brani da pogo del primo album alle struggenti ballate di Aurora. Le canzoni dell’ultimo album sono molto più potenti e crude nella versione live e conquistano totalmente i fan che le cantano a memoria in maniera appassionata. Già, perché non esistono i mezzi fan de I Cani: si canta dalla prima all’ultima parola di ogni canzone, intonando perfino le melodie degli skit di quel primo sorprendente album. C’è chi urla «sono dieci anni che lo aspetto» e quel momento se lo gode nella sua interezza lasciandosi totalmente andare, come una ragazza che all’attacco di Questo nostro grande amore scoppia in un pianto liberatorio.

Tutta la band è perfetta, nonostante alcuni problemi con la chitarra di Newmann. Il muro di suono è potentissimo come se non avessero mai smesso di suonare insieme. La voce di Contessa è tagliente, lucida, cruda a tratti cattiva: è la vera sorpresa della serata. È riuscito ad esplorare range vocali che non aveva mai fatto intravedere. Lo possiamo dire: Niccolò Contessa è anche un grande cantante.

Le interazioni con il pubblico e con la band stessa sono ridotte all’osso. Contessa osserva sempre il pubblico con sguardo fisso e quasi disfida, come a voler dimostrare di meritare di essere nell’olimpo di quei cantautori conosciuti esclusivamente per il cognome.

Da Hypsteria a Velleità, passando per Post Punk, Le coppie e Come Vera Nabokov, sono queste le grandi hit intergenerazionali che mandano in assoluto visibilio il pubblico che le inizia ad intonare saltando all’unisono. È l’isteria collettiva di un pogo che non vuole fermarsi, e come un’onda si è trasportati avanti e dietro senza avere il pieno controllo di se stessi. Proprio durante l’ultimo pogo de I Pariolini di 18 anni, Contessa tradisce un’unica emozione e si lascia andare ad un timido e compiaciuto sorriso.

Si chiude con Calabi Yau fatta al vocoder, Il posto più freddo, Una cosa stupida e l’immancabile Lexotan all’inizio della quale Contessa, nella sua unica interazione con il pubblico, chiede di non utilizzare i cellulari. Per la prima volta, le luci illuminano tutto il palco ed è possibile scorgere nitidamente il volto di tutti i componenti della band. Contessa si lascia andare ad un tanto fallimentare quanto atteso stage diving, non riuscendo ad essere alzato dal pubblico nelle primissime file.

Uscendo dal teatro, la sensazione è di aver assistito a un concerto che presto diventerà culto. Non è la semplice apertura di un cassetto dei ricordi, non è solo nostalgia: svegliare quelle canzoni sopite nell’anima, cantandole a squarciagola, è un potente atto liberatorio. Chissà se sia servito più a Niccolò o al pubblico. Nel dubbio, il regalo è stata una serata di stupida, improbabile, sciocca, ridicola, patetica, mediocre, inadeguata…felicità.

 

Foto di Elisabetta Ghignone

Michele Mastrogiovanni

Tentativo di redenzione dalla calvizie e dall'ingegneria

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