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Da Bad Bunny a Rosalía: reinterpretare la musica tradizionale come atto di resistenza

Un viaggio attraverso esperimenti musicali che riscoprono la tradizione come atto politico: da Bad Bunny a Capossela, passando per i Tinariwen e Rosalía, il recupero delle radici diventa strumento di resistenza, memoria e trasformazione


Premessa fondamentale: sono convinta che Debí Tirar Más Fotos (DtMF), pubblicato lo scorso gennaio da Bad Bunny per Rimas, sia l’album migliore uscito finora nel 2025, seguito a stretto giro da Furèsta di Carola Moccia, a.k.a. La Niña. Sebbene a prima vista possa sembrare un accostamento azzardato, la connessione tra questi due artisti – così apparentemente lontani – è tutt’altro che casuale. L’operazione intellettuale e politica portata avanti da Bad Bunny e da La Niña è la stessa: riscoprire e valorizzare la musica tradizionale come atto di resistenza e affermazione identitaria contro forme di neoimperialismo culturale. De La Niña parleremo a maggio, oggi vorrei concentrarmi su questo piccolo capolavoro musicale e politico che è DtMF.

Faccio però un passo indietro. Il primo pezzo di DtMF in cui mi sono imbattuta è stato NUEVAYoL, una piccola madeleine proustiana che mi ha riportato a quando io e mia sorella ascoltavamo in macchina con mio nonno le sue cassette di musica tradizionale sudamericana e caraibica. Se dovessi descrivere il suono della mia infanzia, sarebbe un mix tra la melodia nostalgica e struggente di un bolero suonato sul Malecón dell’Havana e l’energia fresca della salsa che mio nonno ballava in cucina in pantofole. Per cui, per me, NUEVAYoL è stato come entrare in una capsula del tempo e tornare lì, a trent’anni fa, a mio nonno in pantofole a cui «avrei dovuto scattare più foto».

Il nodo dell’operazione artistica di Bad Bunny è proprio questo, celebrare un ricordo che sta svanendo riportandone il vigore dei colori originari, confezionando un lavoro che è al tempo stesso una dichiarazione d’amore per la sua terra, una ricerca nell’archivio musicale tradizionale per contrastare l’omologazione culturale e un grido di battaglia contro quei poteri che da decenni divorano il patrimonio materiale e immateriale di Porto Rico.

I visual dell’album sono costruiti attorno alla figura del sapo concho, o rospo crestato portoricano, unica specie di rospo autoctona di Porto Rico, data per estinta anni fa e invece – miracolosamente – riscoperta negli anni Settanta. Il rospo incarna non solo la resilienza della fauna locale, ma anche quella di una cultura portoricana sotto attacco di cui l’artista intende recuperare la storia e le narrazioni. Per farlo si avvale anche della collaborazione del prof. Jorell Meléndez-Badillo, esperto di storia latinoamericana e caraibica presso l’Università di Madison, Wisconsin. Il ricercatore ha realizzato assieme a Bad Bunny una serie di infografiche legate alla storia di Porto Rico in modo tale che chi ascolta l’album su YouTube possa contemporaneamente informarsi. È così che scopriamo, ad esempio, di quando Cristoforo Colombo e i suoi si persero nel Mar dei Caraibi (WELTiTA) e dell’origine dell’inno nazionale di Porto Rico, nato dalla penna di Lola Rodriguez de Tió durante l’insurrezione del 1868 nota come Grito de Lares, in cui la poetessa invita ad imbracciare le armi per l’indipendenza dell’isola (DtMF). Bad Bunny fa dunque dialogare storia e musica in un album che si muove su più fronti, visivi ed etnomusicali.

Il reguetón fornisce all’artista l’intelaiatura sui cui innestare riferimenti d’autore ad artisti portoricani tradizionali: in NUEVAYoL, su un tappeto ritmico di dembow si interpolano citazioni a El Gran Combo de Puerto Rico e al loro Un verano en Nueva York. Il testo è costruito attorno al tema della diaspora portoricana negli States e fa riferimento a due importanti centri di aggregazione a New York, ossia il Bronx e il Toñita, uno degli ultimi locali portoricani sopravvissuti alla feroce gentrificazione della proletaria Williamsburg. L’esperienza rimanda alla parentesi del più noto Nuyorican Poets Cafè, centro culturale fondato nel 1973 dal poeta portoricano Miguel Algarín nel Lower East Side. Il bar divenne immediatamente uno spazio artistico fondamentale, affermandosi da subito come punto d’incontro per artisti portoricani e di origine latina residenti a New York – da cui il termine Nuyorican, fusione di New York e Puerto Rican – e come luogo di resistenza culturale e linguistica che offriva una piattaforma a voci emarginate, specialmente afro-latine, queer, migranti e working class. Il bar divenne il simbolo del movimento Nuyorican, che celebrava l’identità ibrida dei migranti portoricani e affrontava temi fondamentali come classe, (neo)colonialismo e diaspora, aspetti presenti in maniera significativa anche nell’album di Bad Bunny.

Oltre a collaborare con diversi artisti più o meno emergenti della scena portoricana, l’artista mescola generi tradizionali e contemporanei: in CAFè CON RON, PIToRRO DE COCO ed EL CLùB, Bad Bunny associa la musica house a plena e bomba, entrambi generi musicali piuttosto antichi i cui testi erano tradizionalmente basati su temi come ingiustizie sociali, identità e resistenza. In particolare, la bomba nasce nel XVII secolo tra gli schiavi africani impiegati nelle piantagioni e si basa su un dialogo percussivo tra tamburi – secondo la tradizione, botti di rum – e ballerino; la plena è più recente e presso la classe operaia della città portuale di Ponce veniva definita la prensa del pueblo – la stampa del popolo – per i suoi testi legati alla vita quotidiana del quartiere. In LO QUE LE PASÓ A HAWAii compare invece il jíbaro, musica tradizionale della zona montana di Porto Rico che prevede l’utilizzo di strumenti come il cuatro portoricano – di cui è presente un assolo – e il güiro, strumento a percussione tradizionalmente ricavato da una zucca essiccata. Si tratta del brano più politico dell’album: il titolo richiama esplicitamente il titolo dell’unico film di un regista portoricano mai nominato agli Oscar, Lo que le pasó a Santiago di Jacobo Morales, e racconta di nuove forme di land grabbing da parte di investitori stranieri, dell’erosione dell’identità locale e dell’invisibilizzazione delle comunità locali sotto il peso di una gentrificazione spinta e del turismo. Il le-lo-lai a cui accenna è un’espressione tipica della tradizione musicale portoricana legata alla plena e alla bomba e usata nei canti tradizionali come intercalare ritmico e vocale. Nel quadro del brano, diventa dunque un richiamo simbolico alla tradizione orale e musicale portoricana, un invito a cantare la propria appartenenza all’isola e alla sua storia.

DtMF non è ovviamente l’unico esempio di recupero in chiave politica della tradizione anche musicale. Penso, ad esempio, ai Tinariwen, i quali parlano di identità nomade e resistenza associando chitarre elettriche a strumenti appartenenti alla tradizione tuareg come il tende e l’imzad. I Tinariwen cantano in tamasheq utilizzando linee vocali modali, cori a risposta e vocalizzazioni cerimoniali della zona sahariana. Adattando le radici culturali a nuove forme espressive, la musica dei Tinariwen diventa un mezzo per resistere e rinnovare, una chiave per comprendere il presente attraverso le lenti del passato. Lo stesso intento è presente, ad esempio, anche ne Le canzoni della cupa di Vinicio Capossela, dove la musica diventa veicolo di istanze sociali. Capossela per questo album ha compiuto un vero e proprio lavoro filologico sulla tradizione popolare musicale di Irpinia e Lucania e sui suoi archetipi. Ciaramelle e organetti costruiscono l’intelaiatura sonora di storie che parlano di lupi mannari, spiriti e santi, una coralità simbolica che canta un Sud ancestrale, resistente e fuori dal tempo – inteso anche come il tempo di una modernità feroce –.

L’ultima stazione di questo breve viaggio nella tradizione è il bellissimo album di Rosalía, El mal querer (2018, Columbia Records). Rosalía è spagnola e porta all’interno di questo album gli studi che ha compiuto al conservatorio sul flamenco, che viene qui riletto in maniera critica. L’album si basa, infatti, su un testo medievale spagnolo in lingua occitana del XIII secolo, il Roman de Flamenca, che narra di una giovane donna, Flamenca appunto, vittima della gelosia del marito il quale, furioso, la chiude in una torre per evitare che la donna abbia qualsiasi contatto con l’esterno. Flamenca riesce comunque a comunicare con il suo amante, anche se rinchiusa nella torre, e riesce infine a scappare, liberandosi dal giogo del marito. L’artista reinterpreta il racconto in chiave contemporanea e femminista e utilizza il flamenco come mezzo espressivo per sovvertire la narrazione di una storia che viene ora narrata dalla protagonista. Rosalía prende tutto il vigore percussivo del flamenco utilizzandone gli elementi canonici come palmas – battiti di mani –, jaleos – incitazioni vocali – e la profondità emotiva del cante jondo, ma ne modifica il contenuto, facendolo diventare canto di emancipazione femminile. Le sonorità tradizionali vengono ibridate con trap e raggaeton, creando un genere che prende il nome di flamenco futurista o nuevo flamenco experimental, una nuova corrente che intende decostruire e rimontare il flamenco tradizionale per proiettarlo verso il futuro anche tramite nuovi linguaggi sperimentali. Una rivoluzione simile è in atto anche nel reguetón, un genere tradizionalmente machista – lo stesso Bad Bunny a più riprese scivola nel canone sessista che contraddistingue buona parte del reguetón classico –. Come scriveva June Fernández nel 2013, «si no puedo perrear, no es mi revolución». E così, artiste come Ivy Queen, Karol G e Chocolate Remix parlano di impoteramento femminile, consenso e perreo come atto di affermazione e punto di partenza per un reguetón queer.

Vi saluto con Reniego – Cap. 5: Lamento, questo bellissimo cante jondo di Rosalía. Ascoltatelo con una birra, al calasole.

Chiara Correndo

CCCP, drum'n'bass e Ornella Vanoni. Made in Turin.

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